Defacebook

Mele e appunti

Di link in link, sono approdato a un articolo molto interessante sul fenomeno Facebook: With Friends Like These… [Con amici come questi…], scritto da Tim Hodgkinson per la sezione Tecnologia del Guardian. Particolarmente istruttiva la disamina sui personaggi-burattinai che muovono i fili di questa società valutata miliardi di dollari. Il pezzo non è freschissimo, risale allo scorso gennaio, ma vale la pena leggerlo nella sua interezza, malgrado sia lungo e in inglese. Avessi tempo e adeguati finanziamenti lo tradurrei volentieri in toto, ma per adesso mi limito a estrapolarne alcuni frammenti un po’ per provocare, un po’ per sottolineare la mia vicinanza di posizione con l’autore, un po’ per invitare, appunto, alla lettura integrale dell’articolo.

Il pezzo imposta subito il tono in apertura:

Disprezzo Facebook. Questa azienda americana di enorme successo si descrive come “un’utility sociale che vi connette con le persone che vi circondano”. Fermi tutti: perché diamine mi dovrebbe servire un computer per connettermi con le persone che mi circondano? Perché i miei rapporti sociali dovrebbero essere mediati attraverso l’immaginazione di un gruppo di super-nerd californiani? Che aveva di sbagliato il buon vecchio pub?

E poi, Facebook connette davvero le persone fra loro? Non è che invece ci scollega, dato che invece di far qualcosa di piacevole come chiacchierare, mangiare, ballare e bere con i miei amici, non faccio altro che inviare loro brevi messaggi sgrammaticati e foto buffe nel cyberspazio, mentre me ne sto qui confinato alla scrivania? Un mio amico mi ha detto di recente di aver passato un sabato sera a casa, collegato a Facebook, bevendo davanti al computer. Che immagine triste. Più che connetterci, Facebook ci isola davanti alle nostre workstation. 

Questo genere di perplessità mi ha sempre accompagnato in relazione all’intero fenomeno del social networking. Se da un lato comprendo, e ho sperimentato personalmente, i benefici ‘collaborativi’ del Web duepuntozero, dall’altro non posso dire altrettanto del lato sociale ‘informale’. Non sono un sociologo, e non è mia intenzione incominciare una lunga tirata su come certi aspetti del virtuale stiano minando, distorcendo e un poco disumanizzando le relazioni interpersonali vere e proprie. In quanto scrittore e appassionato di fotografia, mi ritengo tuttavia un buon osservatore, e il boom del social networking ha senza dubbio lasciato tracce; tracce che continua a lasciare. In una recente chiacchierata ‘vera’ (ossia non telematica) fra amici mi è stato detto che forse sono troppo intransigente e ho un atteggiamento ‘da vecchio trombone’ su queste cose. Mi è stato detto persino che dovrei ‘stare al passo coi tempi’ e che con questi fenomeni ‘la resistenza è inutile’. Per parte mia, io ho fatto notare che una buona porzione del mio mestiere contempla proprio lo ‘stare al passo coi tempi’ e l’essere costantemente informato sulle tecnologie e tendenze attuali. Ma fra il conoscere qualcosa, anche in modo approfondito, e abbracciarlo acriticamente c’è una bella differenza.

Non nego infatti la grande utilità sociale di Internet. Grazie alla rete ho conosciuto dal vivo persone interessanti, sono entrato in contatto con persone belle, e alla fin fine ho anche incontrato mia moglie. Internet può essere un incredibile magnete per avvicinare persone attraverso il meccanismo delle affinità elettive. Poi però sta ai soggetti agire da soggetti, e lasciare che gli strumenti (il computer, lo smartphone, “Internet” in generale) siano appunto i mezzi, non il fine. Sì, perché grazie alla rete ho anche incontrato personaggi bizzarri e squilibrati (nell’accezione letterale di “mancanti di un equilibrio”), e persone le cui abitudini sono palesemente condizionate dal computer, dalla ‘socialità virtuale’ se mi passate il termine.

Esempi? Una collega di mia moglie abita con il suo compagno nel palazzo dietro il nostro, e organizza una cena in un ristorante che dista mezzo chilometro in linea d’aria dai due edifici, coinvolgendo persone che abitano tutte nel nostro quartiere. Come organizza? Con Facebook. Siamo in 6 persone, viviamo tutti nelle vicinanze, potremmo quasi comunicare gridando dai rispettivi balconi, per dire. Basterebbe un breve giro di telefonate. Basterebbe — orrore — passare dopo cena a fare una visitina. In fondo abbiamo tutti più o meno gli stessi orari. Eh, ma poi sono io a essere ‘della vecchia scuola’.

Altro esempio, fresco fresco, visto l’altroieri in una caffetteria: cinque amici, il classico gruppo di studenti un po’ alla moda, un po’ allegroni. Uno estrae il suo smartphone e comincia a scrivere furiosamente. L’amico seduto a fianco scherza e gli dice più o meno: “Stai mandando messaggini d’amore?”. “No”, risponde quello, con una serietà tale da spezzare l’atmosfera goliardica: “sto aggiornando Twitter”. Perlomeno era fuori con gli amici e non a casa sua. Ma chissà se con la testa stava davvero lì con gli amici.

Altri esempi si trovano dovunque, basta osservare intorno a noi. Ogni volta che vado a bermi un caffè in uno Starbucks noto almeno una coppia in cui uno dei due sta consumando qualcosa con il portatile aperto sul tavolino e lei seduta per proprio conto, magari scrivendo sul suo cellulare, o bevendo con aria assente, o in generale facendo altro. A volte i ruoli sono invertiti. Intendiamoci, non è obbligatorio parlarsi in continuazione e a tutti i costi, ma la sensazione che provo dal mio punto di osservazione è quella di estraneità e alienazione.

Tornando a Facebook, e all’articolo:

Facebook inoltre fa appello a una certa vanità e presunzione insite in noi. Se carico una foto che esalta il mio aspetto, insieme a un elenco di cose che preferisco, posso costruire una rappresentazione artificiale della mia persona allo scopo di ottenere sesso o approvazione. […] Viene anche incoraggiato un elemento di competizione nell’amicizia che trovo piuttosto inquietante: sembra che oggi, in fatto di amicizie, la qualità non conti nulla e la quantità regni sovrana. Più amici hai, più sei migliore. Più sei “popolare”, nell’accezione tanto amata nei licei americani. Lo slogan sulla copertina della nuova rivista su Facebook della casa editrice Dennis Publishing è “Come raddoppiare l’elenco dei vostri amici”. 

E, più avanti:

Anche se non credete che Facebook possa essere una sorta di estensione nel virtuale del programma imperialista americano incrociata con uno strumento di raccolta di informazioni su vastissima scala, non si può negare che, da un punto di vista commerciale, Facebook è una grande genialata. […] Le sue dimensioni in scala sono davvero vertiginose, e il potenziale di crescita è virtualmente illimitato. “Vogliamo che tutti siano in grado di utilizzare Facebook”, dice la voce impersonale del Grande Fratello sul sito. Ci scommetto che lo vogliono. È stato l’enorme potenziale di Facebook a spingere Microsoft a comprarne l’1,6% per 240 milioni di dollari. […]

I creatori del sito non devono poi fare molto con il loro programma. Principalmente se ne stanno seduti osservando milioni di fanatici di Facebook mentre inseriscono spontaneamente le proprie informazioni personali, le proprie foto e gli elenchi dei loro oggetti di consumo preferiti. Una volta ricevuto questo enorme database di esseri umani, Facebook non deve far altro che vendere tali informazioni agli inserzionisti, o, come ha detto Zuckerberg in un post sul suo blog, cercare di aiutare la gente a condividere informazioni coi propri amici sulle cose che fanno sul Web. Ed è esattamente ciò che sta accadendo. Il 6 novembre 2008, Facebook annunciò che 12 brand a livello globale erano entrati in gioco, fra cui Coca-Cola, Blockbuster, Verizon, Sony Pictures e Condé Nast. […]

Share” (“condividere”) è gergo-Facebook per “advertise” (“pubblicizzare”). Iscrivetevi a Facebook e diventate un veicolo pubblicitario gratuito in favore di Blockbuster o della Coca-Cola, elogiandone le virtù presso i vostri contatti. Stiamo assistendo alla mercificazione dei rapporti umani, l’estrazione di valore capitalistico dall’amicizia fra persone.

Sapevo poco del retroscena commerciale. Ho sempre evitato Facebook perché insospettito e irritato dalla quantità di gente che vi si buttava e vi si continua a buttare come un gregge di pecore, aprendo account ‘per inerzia’, perché ‘lo ha fatto il mio amico Tale o la mia amica Talaltra’, eccetera. Ma soprattutto non mi serviva, e non avevo intenzione di aprire, l’ennesimo account in cui si deve compilare l’ennesimo profilo personale, eccetera. E non mi piacevano i metodi di ‘adescamento’: l’amico con account Facebook ti invita per email a ‘vedere il suo profilo’, ma per vederlo devi giocoforza iscriverti ed entrare a tua volta nella baracca, ennesimo ingranaggio del grande marchingegno. Scherzosamente (ma neanche tanto) l’ho definito la nuova Peste Nera Digitale, per il suo diffondersi epidemico. Probabilmente lo evito anche per una mia innegabile componente snob (parliamoci chiaro, snobbare Facebook non mi sembra affatto un peccato). Devo dire però che la lettura di questo articolo, oltre a farmi conoscere informazioni che non sapevo (specie su chi c’è dietro a Facebook), ha confermato i sospetti che mi tenevano pregiudizialmente lontano da questa ennesima sfaccettatura della ‘socialità di plastica’. E continuerò a starne alla larga, a frequentare i pub e a chiacchierare davanti a una buona cena. E soprattutto a non contribuire all’arricchimento di certi individui.

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Writer. Translator. Mac consultant. Enthusiast photographer. • If you like what I write, please consider supporting my writing by purchasing my short stories, Minigrooves or by making a donation. Thank you!

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