Tecnologia e cervello

Mele e appunti

Sto pian piano esaurendo gli articoli non letti accumulatisi durante il mio distacco da Internet il mese scorso. Sono incappato in questo post di Christopher Fahey che si intitola Totaled Recall: How technology is ruining our brains, ossia letteralmente “Memoria allo sfascio: Come la tecnologia sta rovinando la nostra mente”. La sezione chiave per me è questa, che traduco e propongo:

Tempo fa gli esseri umani avevano una memoria eccezionale. Dato che i materiali per scrivere erano molto costosi, e l’alfabetismo una cosa rara, le persone che avevano necessità di spostare la conoscenza attraverso spazio e tempo facevano affidamento sull’unica opzione disponibile: il loro cervello.

Oggi quasi facciamo fatica a ricordarci un numero di telefono, mentre soltanto una decina di anni fa molti di noi riuscivano a ricordarne decine, se non centinaia. Tutto perché una tecnologia (lo speed dial) è andata a sostituire quella parte di fardello cognitivo. I motori di ricerca ci permettono di non dover ricordare nulla, dato che possiamo sempre cercare su Google. Alcuni sostengono che questo ci dia maggiori potenzialità rispetto ai nostri predecessori, da un punto di vista mentale, poiché in questo modo possiamo dedicare il cervello a nuovi tipi di idee invece di sprecare troppi neuroni impiegandoli in stupide attività come l’immagazzinamento e il recupero di informazioni memorizzate.

Ma è davvero un fardello? Non credo. Mio nonno, che è stato anche un insegnante di inglese, era capace di recitare centinaia di poesie e di passaggi letterari che sapeva a memoria. Mi piaceva pensare che, per il fatto che tali ‘contenuti’ esistessero nella sua mente (ed erano prontamente accessibili grazie alla sua attività volontaria di memorizzazione), la sua sfera interiore fosse in qualche modo più ricca. Immaginavo anche che parole e stralci di poesia potessero farsi strada nel suo scrivere, e perfino nei suoi sogni.

Tornando sulla mia idea formidabile [e dimenticata] di ieri, mi rendo conto dell’errore commesso: ho scartato subito l’opzione di appuntarmela su un foglio di carta. Mi sono disarmato del più potente strumento di memorizzazione che possiedo. Ho pensato a un sacco di altre possibilità apparentemente più ‘cool’ [mandarmi un’email, lasciarmi un messaggio in segreteria, pensare a qualche applicazione per iPhone di riconoscimento vocale, ecc.] invece che carta e penna.

Oltre al linguaggio, lo scrivere e il disegnare sono le tecnologie di informazione più essenziali degli esseri umani. Queste tre tecnologie rappresentano il punto più alto (finora, almeno) raggiunto nel raffinare la cosiddetta ‘interfaccia umana’. Infatti il parlare, lo scrivere e il disegnare sono interfacce così efficienti verso un’esperienza cognitiva diretta che, come ha sostenuto Andy Clarke, possono essere considerate estensioni cibernetiche della nostra mente. Non vi è dubbio che parlare di qualcosa, o scriverne, annotarlo, aiuta a riflettere maggiormente su di esso e consente a un’idea di diventare parte della ‘memoria di bordo’, come le poesie che mio nonno aveva memorizzato.

Pertanto mi preoccupa non poco l’aver seriamente considerato altre tecnologie meno efficaci (anche se più moderne e ‘cool’). Suppongo che il motivo per cui difendo così tanto il disegnare e tracciare schizzi è perché sono frequentemente tentato da soluzioni tecnologiche.

Mi chiedo quante persone abbiano preso questo tipo di decisione in modo permanente, ossia che hanno deciso di affidarsi a strumenti tecnologici per tutte le proprie esigenze di memorizzazione a breve e lungo termine. E mi chiedo come tale cambiamento comportamentale a livello di società abbia intaccato la nostra capacità di pensare e produrre nuove idee.

In altre parole, la tecnologia e le sue protesi stanno espandendo o atrofizzando il nostro cervello? Me lo chiedo anch’io. Ironicamente, leggendo questo articolo mi sono ricordato che era da molto tempo che volevo proporre tale argomento di discussione sul mio blog, che avrei dovuto appuntarmelo ma me ne sono dimenticato. È un’idea, infatti, che risale a prima che decidessi di tenere un quaderno di appunti per Autoritratto con mele.

Fin da piccolo ho sviluppato un contatto viscerale con la carta e la penna. Consumavo una gran quantità di fogli, quaderni, agende, penne e matite per scrivere, disegnare, pasticciare, tanto che i miei familiari mi chiamavano ‘il piccolo scrivano’. Moltissima produzione creativa, dalle poesie ai racconti a progetti di prosa più estesi e complessi, con me è sempre partita scritta a mano su fogli, quaderni, agende. Le cose più interessanti, poi, finivano dattiloscritte e ordinate. Quando il computer ha cominciato ad avere un ruolo sempre più accentratore nella mia vita, mi sono trovato spesso a combattere fra due scelte: persistere con la scrittura a mano e poi l’immissione dei dati e quindi la trasformazione elettronica dei documenti, oppure affidarmi esclusivamente ai supporti di memorizzazione offerti dalle macchine, sempre più sofisticate, che ho imparato a usare?

Per un periodo relativamente lungo la scelta preponderante è stata la seconda, soprattutto per ragioni di tempo, e poi di quella che chiamo ‘economia cerebrale’: se sono già davanti al computer, annoto o scrivo o compongo qualcosa direttamente in un nuovo documento di testo. È comodo, ci mancherebbe altro, perché complicarsi la vita altrimenti?

Un giorno mi sono fermato a riflettere mentre riordinavo vecchi scritti e mi sono reso conto che da quando ho smesso di avere quel contatto viscerale, quel rapporto continuativo con la carta e la penna, ho anche smesso di produrre scritti creativi ‘finiti’. Era come ritrovarsi davanti al letto rinsecchito di quel che era sempre stato — scusate l’immagine abusata — un fiume in piena. Certo, può anche trattarsi di una coincidenza: da quando, nel 2000–2001, ho iniziato a lavorare per mio conto, il tempo per la scrittura creativa si è ridotto sensibilmente, sono aumentate le preoccupazioni legate al pane quotidiano, ed è comprensibile che le mie energie siano state indirizzate altrove; eppure il 2002–2003 per me è stato il biennio più pieno, lavorativamente parlando, ma dato che all’epoca continuavo imperterrito a servirmi di carta e penna per annotazioni, idee, progetti, la vena creativa non ne aveva risentito granché. Dormivo tre-quattro ore per notte pur di finire un racconto breve. Poi, la secca.

Da quel giorno mi sono obbligato a riprendere le mie penne stilografiche, i quaderni, le moleskine, e via dicendo. Sto facendo un discorso personalissimo, beninteso, e non ho intenzione di dimostrare alcuna tesi. Dall’analisi della mia esperienza personale posso dedurre che il periodo di tempo, grossolanamente compreso fra il 2004 e il 2008, in cui più mi sono affidato a ‘stampelle tecnologiche’ e in cui mi sono fatto maggiormente assorbire dal computer e dal Web, è stato il più arido creativamente, il più frammentario, il più opaco a livello di ricchezza cognitiva interiore, per così dire. Faticavo a ricordare passaggi poetici o banalmente canzoni che, solo per averle cantate centinaia di volte, le pensavo ormai tatuate dentro. Ho pensato di correre ai ripari e di riprendere quel contatto perduto con la scrittura a mano. Che non è solo il sedersi di fronte a un foglio e scrivere; è rimettersi in un contesto ‘decontaminato’ in cui non c’è lo schermo di un computer davanti, con le sue tentazioni telematiche da Paese dei Balocchi. È il sedersi in un luogo tranquillo, un angolo d’appartamento (in tutti i sensi) e ricreare quella sfera di concentrazione e pensiero fra occhio, mano e foglio. Quel silenzio in cui la mente si mette in movimento e agisce invece di subire.

Sarebbe interessante conoscere le vostre esperienze in proposito.

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