Intervista a John Sculley (2)

Mele e appunti

Ecco la seconda parte dell’intervista a John Sculley, da me tradotta in italiano.

[Link alla prima parte]


 

 

D: Anche Nike potrebbe essere un buon esempio, no?

Sculley: Sì, forse Nike è un esempio più calzante. Se consideriamo l’elettronica di consumo giapponese di quell’epoca possiamo vedere come fossero tutte aziende analogiche.

Quella che Steve ammirava di più era Sony. Andavamo spesso a trovare Akio Morita, e lui aveva lo stesso genere di standard qualitativi elevati di Steve, e lo stesso rispetto per i prodotti attraenti. Ricordo che Akio Morita diede a Steve e a me uno dei primi Sony Walkman. Nessuno di noi aveva mai visto una cosa simile prima, perché un tale prodotto non era mai esistito. Stiamo parlando di 25 anni fa. E Steve ne era affascinato. La prima cosa che fece fu smontarlo ed esaminarne tutte le parti, com’erano state eseguite le rifiniture, com’era stato costruito.

Era affascinato dalle fabbriche Sony. Le visitammo. I dipendenti indossavano uniformi di colori diversi: alcuni avevano uniformi rosse, altri verdi, altri blu, a seconda dei loro incarichi. Tutto era progettato con cura e le fabbriche erano impeccabili. Tutto questo ebbe un forte impatto su Steve.

La fabbrica di Macintosh era concepita esattamente nello stesso modo. Non c’erano uniformi colorate, ma era in tutto e per tutto elegante quanto le prime fabbriche Sony che visitammo. A quei tempi il punto di riferimento per Steve era Sony. Lui voleva essere come Sony. Non come IBM, non come Microsoft. Voleva essere Sony.

La sfida, in quell’epoca, era che non si potevano costruire prodotti digitali come Sony. Tutto era analogico e le imprese giapponesi avevano un approccio ben delineato nel libro di Prahalad, dell’Università del Michigan; lui lo aveva studiato. [Nota: Sculley si riferisce a C. K. Prahalad, Competing for the Future (1994)].

I giapponesi partivano sempre dalle quote di mercato dei componenti. Per cui un’azienda dominava, per esempio, il mercato dei sensori, e un’altra quello delle memorie, e un’altra ancora quello dei dischi rigidi, e cose del genere. Avrebbero poi formato le proprie forze di mercato con i vari componenti per lavorare successivamente alla realizzazione del prodotto finale. Questo sistema andava bene per l’elettronica analogica, in cui si cerca di concentrarsi sulla riduzione dei costi e chiunque controlli il componente chiave si trova in una posizione di vantaggio. Ma non funzionava affatto per l’elettronica digitale, perché con un approccio del genere nell’elettronica digitale si parte dall’estremo sbagliato della catena di valore. Non si parte dai componenti. Si parte dall’esperienza utente.

E possiamo vedere oggi il grave problema che Sony sta avendo da almeno 15 anni, ossia da quando è emersa l’industria dell’elettronica digitale di consumo. Nell’organizzazione interna di Sony, le informazioni sono state sempre trasmesse saltando le gerarchie. I responsabili del software non parlano con quelli dell’hardware, i quali non parlano con quelli dei componenti, i quali a loro volta non parlano con i responsabili del design. I vari dipartimenti litigano fra loro e le aziende sono enormi e burocratiche.

Sony avrebbe dovuto produrre un oggetto come iPod, ma non l’ha fatto — è stata Apple. iPod è un esempio perfetto della metodologia di Steve: partire dall’utente e tenere in considerazione l’intero sistema end-to-end.

Con Steve si trattava sempre di un sistema end-to-end. Lui non era un designer in senso stretto, più un grande ideatore di sistemi. È qualcosa che non si vede in altre aziende, che tendono a concentrarsi sul loro pezzo e affidare in outsourcing tutto il resto.

Se osserviamo lo stato di iPod, tutta la catena produttiva che arriva fino alla Cina, vedremo che è sofisticata quanto il design del prodotto stesso. I medesimi standard di perfezione sono tanto impegnativi per la catena produttiva quanto lo sono per il design dell’esperienza utente. È un modo completamente diverso di guardare le cose.

D: Da dove è venuta l’idea a Steve Jobs di controllare l’intero dispositivo? L’idea di essere responsabile di tutto, dell’intero sistema?

Sculley: Steve credeva che se avesse aperto il sistema, la gente avrebbe cominciato a effettuare piccole modifiche, e quelle modifiche si sarebbero tramutate in compromessi nell’ambito dell’esperienza utente, e Steve non sarebbe stato in grado di fornire il genere di esperienza che lui voleva.

D: Ma questo controllo si estende a ogni aspetto del prodotto — persino all’apertura della confezione. L’esperienza di aprire la scatola è ideata da Steve Jobs.

Sculley: Il primo Macintosh si può dire che non avesse un sistema operativo. Si continua a dire Perché non abbiamo dato in licenza il sistema operativo? La risposta più semplice è che non esisteva. Tutto era realizzato con moltissimi trucchi a livello di hardware e software. In quei tempi i microprocessori erano ridicoli rispetto agli standard attuali. Per creare un’immagine grafica a video occorreva impiegare tutta la potenza del processore. Poi bisognava attaccarvi dei chip tutt’intorno per poter delegare altre funzioni. Poi era necessario implementare quelle che si definiscono ‘chiamate alla ROM’. Vi erano 400 chiamate alla ROM, che erano tutte le piccole subroutine che dovevano essere scaricate nella ROM perché non vi era nessun modo di farle eseguire in tempo reale. Tutte queste cose erano tenute insieme molto bene. Era davvero notevole poter offrire una macchina simile tenendo conto che il primo processore del Mac era meno di tre MIPS (Million Instructions Per Second — Milioni di Istruzioni al Secondo), che oggi sarebbe l’equivalente di… no, non mi viene in mente nessun dispositivo attuale da tre MIPS. Persino il suo orologio digitale è almeno 200–300 volte più potente del primo Macintosh. (Nota: giusto per fare un paragone, il modello di iMac entry-level di oggi sfrutta un processore Intel Core i3, capace di più di 40.000 MIPS!)

È difficile concepire come Steve abbia potuto ottenere così molto con così poco in quei tempi. Al di là di quanto facemmo con il primo Mac, costruire prodotti consumer negli anni Ottanta era letteralmente impossibile. Negli anni Novanta, con la Legge di Moore, l’omogeneizzazione della tecnologia, e altre cose, divenne possibile iniziare a vedere che aspetto avrebbero avuto i prodotti consumer, ma non si potevano ancora costruire per davvero. Si è dovuto attendere praticamente l’inizio del nuovo millennio per avere quel crossover fra il costo dei componenti, la mercificazione e la miniaturizzazione necessaria a realizzare prodotti consumer. Le prestazioni hanno improvvisamente raggiunto un livello in cui si è potuto iniziare a costruire dispositivi che possiamo chiamare prodotti digitali di consumo. Dato che la metodologia di design di Steve era così giusta già 25 anni fa, lui è stato in grado di definire una metodologia di design — i suoi primi principii — fondata sull’esperienza utente, sul concentrarsi solo su alcuni aspetti, osservare il sistema, mai scendere a compromessi, confrontarsi non con altri prodotti elettronici ma con i prodotti migliori di gioielleria — tutti quei criteri. Nessuno li aveva mai considerati. Tutti gli altri stavano attraversando una evoluzione di prodotti a basso costo che diventavano sempre più potenti e sempre meno costosi da costruire. Come il lettore MP3. Vi ricordate, quando Steve arrivò con iPod esistevano già migliaia di lettori MP3. Qualcuno si ricorda di alcuni di quei modelli?

Il compromesso di Steve era ritenere di dover controllare l’intero sistema. Tutto il potere decisionale era nelle sue mani. I prodotti erano chiusi.

D: Ma la ragione di tutto questo è l’esperienza utente?

Sculley: Assolutamente. L’esperienza utente deve permeare l’intero sistema end-to-end, che si tratti di desktop publishing o di iTunes. Fa tutto parte del sistema end-to-end. Anche la produzione. La catena produttiva. Il marketing. I negozi. Ricordo di essere stato assunto in Apple per il mio background nel design e perché ero un uomo di marketing con esperienza di marketing del prodotto. Non perché avessi qualche competenza informatica.

D: Lo trovo molto affascinante. Lei dice nel suo libro che intendeva innanzi tutto trasformare Apple in una ‘azienda di product marketing’.

Sculley: Esatto. Steve e io abbiamo passato mesi a conoscerci prima che io entrassi in Apple. L’unica sua esposizione al marketing derivava dalle sue ricerche. Questo è un aspetto abbastanza tipico di Steve. Quando sa che qualcosa è potenzialmente importante, cerca di assorbire più informazioni possibili a riguardo.

Una delle cose che lo affascinava era questa: gli spiegai che non esiste una gran differenza fra una Pepsi e una Coca-Cola, ma la Coca-Cola batteva nelle vendite noi della Pepsi con un rapporto di 9 a 1. Il nostro lavoro era convincere le persone che Pepsi rappresentava una scelta abbastanza importante da doverle prestare attenzione, e quindi passare a comprare Pepsi, non Coca-Cola. Decidemmo di trattare Pepsi come una cravatta. In quell’epoca la gente faceva attenzione a che tipo di cravatta indossasse. La cravatta era un messaggio: Ecco come voglio che tu mi veda. Pertanto dovevamo produrre Pepsi come fosse una bella cravatta. Quando tieni in mano una Pepsi, la bevanda dice: Ecco come voglio che tu mi veda.

Abbiamo svolto delle ricerche e abbiamo scoperto che quando le persone dovevano servire bevande analcoliche agli amici in visita, se avevano della Coca-Cola in frigo, sarebbero andate in cucina, avrebbero aperto il frigo, preso la bottiglia di Coca-Cola, l’avrebbero portata in salotto, messa sul tavolo e avrebbero riempito il bicchiere davanti agli ospiti.

Se si fosse trattato di una Pepsi sarebbero andate in cucina, l’avrebbero presa dal frigo, aperta e versata in un bicchiere in cucina, e avrebbero portato in salotto solo il bicchiere già riempito. In sostanza, erano imbarazzate che qualcuno sapesse che in casa avevano Pepsi da servire agli ospiti. Magari, non vedendo la bottiglia, gli ospiti avrebbero pensato si trattasse di Coca-Cola, perché questa veniva percepita in maniera più positiva. Era una cravatta migliore. Steve era affascinato da questo.

Parlammo molto di come la percezione guidi la realtà e di come sia necessario poter creare una determinata percezione se si vuol creare una realtà. Noi l’abbiamo fatto con qualcosa chiamato Pepsi Generation.

Grazie a una lezione tenuta dalla dott.ssa Margaret Mead, un’antropologa degli anni Sessanta, avevo imparato che la cosa più importante per il marketing sarebbe stata l’emergere di una classe media benestante — quelli che sono stati chiamati Baby Boomers, e che oggi ormai sono sulla sessantina. Furono i primi a poter vantare un reddito discrezionale, ovvero a potersi permettere spese per beni non strettamente necessari.

Abbiamo creato la Pepsi Generation avendo loro in mente. La campagna si concentrava sempre su chi consumava la bevanda, mai sulla bevanda stessa.

Coca-Cola si è sempre concentrata sulla bevanda. Noi invece su chi la beve. Nella nostra pubblicità abbiamo mostrato persone che guidavano moto da cross, che praticavano sci acquatico, che facevano volare aquiloni o che facevano deltaplano — persone impegnate nelle attività più diverse. E alla fine delle loro fatiche, la ricompensa era sempre una Pepsi. Tutto questo avveniva agli inizi della televisione a colori. Eravamo la prima compagnia a proporre un marketing basato sullo stile di vita. E la prima e più duratura campagna basata sullo stile di vita è stata, ed è tuttora, quella di Pepsi.

Abbiamo lanciato quella campagna proprio quando venne introdotta la televisione a colori e quando iniziavano a diffondersi schermi di grandi dimensioni, da 19 pollici. Non ci siamo rivolti a chi realizzava spot televisivi, perché quella gente pensava a creare spot pubblicitari per schermi piccoli e in bianco e nero. Siamo andati a Hollywood, dai migliori registi, e abbiamo detto: Vogliamo che facciate per noi dei veri e propri film lunghi 60 secondi. Film che mettessero in risalto lo stile di vita. Tutto stava nel creare la percezione che Pepsi fosse la numero uno perché non si può essere il numero uno se non si pensa come un numero uno. Bisognava apparire come il numero uno.

A Steve quelle idee piacevano un sacco. Molto di quel che stavamo facendo e il nostro marketing si concentravano su quando avremmo introdotto il Mac sul mercato. Era necessario farlo a un tale livello di percezione delle aspettative al punto da indurre le persone a voler scoprire di cosa fosse capace un tale prodotto. All’inizio quel prodotto non era in grado di fare granché: quasi tutta la tecnologia era stata impiegata per creare l’esperienza utente. Infatti vi fu una forte reazione negativa quando il pubblico disse che il Mac era soltanto un giocattolo, che non era in grado di fare nulla. Ma col tempo e con il progresso tecnologico, il Mac è stato capace di fare molto.

D: Naturalmente oggi Apple è famosa per lo stesso tipo di pubblicità basata sullo stile di vita. Vengono presentate persone che vivono uno stile di vita invidiabile, tutto grazie ai prodotti Apple. Come per esempio dei giovani alla moda mentre si divertono con i loro iPod…

Sculley: Non mi prendo alcun merito per questo. L’essenza della bravura di Steve è la sua capacità di vedere qualcosa, di comprenderlo e di trovare il modo di inserirlo nel contesto della sua metodologia di design — perché tutto è design, per Steve.

Le racconto un aneddoto: un mio amico doveva recarsi a una riunione in Apple e in Microsoft nello stesso giorno — è un fatto accaduto lo scorso anno, quindi di recente. Si è presentato alla prima riunione in Apple (è rivenditore Apple) e quando sono arrivati i designer tutti smisero di parlare perché i designer sono le persone più rispettate all’interno dell’azienda. Tutti sanno che i designer parlano per Steve perché devono rendere conto a lui del loro operato. Solo in Apple il dipartimento del design fa rapporto direttamente al CEO.

Più tardi quel giorno il mio amico si presentò alla riunione in Microsoft: parlavano tutti. Poi inizia la riunione e non si vede nemmeno l’ombra di un designer. Solo i tecnici erano presenti, tutti presi a buttar giù idee su questioni di design. È una strada che conduce al disastro.

Microsoft assume alcune delle persone più brillanti in circolazione. Microsoft è nota per il periodo di prova tremendamente impegnativo a cui sottopone i potenziali soggetti da assumere. Non è questione di essere brillanti o di avere talento. È che il design, in Apple, si trova al punto più alto di tutta l’organizzazione, e se ne occupa Steve in persona. In altre aziende il design si trova in tutt’altro posto, sepolto da qualche parte sotto una montagna di burocrazia… Nelle burocrazie molte persone hanno l’autorità di dire no, ma non l’autorità di dire sì. E ci si ritrova con prodotti che presentano dei compromessi. Questo ci riporta alla filosofia di Steve secondo cui le decisioni più importanti riguardano le cose che decidi di non fare, non quel che decidi di fare. Ritorna ancora una volta il pensiero minimalista.

Ero in Apple agli inizi, e tuttora non vedo alcun cambiamento nei primi principii di Steve — quel che noto è che Steve è migliorato sempre di più in ciò che fa.

Un altro esempio brillante è quel che Steve ha fatto con i negozi al dettaglio.

Portò in Apple uno dei migliori rivenditori per imparare la vendita al dettaglio (Mickey Drexler di The Gap, che suggerì a Jobs di costruire un prototipo del negozio prima del lancio). Non solo Steve imparò la lezione su come vendere al dettaglio, ma devo dire di non essere mai stato in un negozio migliore di un Apple store. Ha il più alto fatturato per metro quadrato di qualsiasi altro negozio al mondo, ma il fatturato non è tutto, quel che conta è l’esperienza.

Gli Apple store sono sempre pieni di gente. Lei può andare al Sony Center — quello che si trova al Moscone Center di San Francisco. Non c’è nessuno. O al Nokia store, ce n’è uno a New York sulla 57ma Strada. Non c’è nessuno.

Ma anche altre aziende possiedono negozi al dettaglio, con prodotti da guardare, da toccare, da provare. Però poi lei entra in un Apple store ed è un’esperienza straordinaria. È come andare a fare shopping in compagnia.

E torniamo ancora una volta alle cravatte. È come se il trovarsi in un Apple store sia un modo di comunicare il messaggio: Ecco come voglio che tu mi veda. Sono qui, sono al Genius Bar, sto provando i prodotti. Guardami: sono come gli altri clienti in negozio.

L’esperienza utente è completa: dall’esperienza d’uso del prodotto, alla pubblicità che presenta il prodotto, al design del prodotto stesso. Steve è famoso per la sua pignoleria su come debbano essere le rifiniture di un prodotto. Lui osserva il raggio, le linee di separazione, le cornici e tutti i più piccoli dettagli che i designer prendono abitualmente in considerazione.

Steve è capace di rifiutare un dettaglio che non appariva problematico a nessuno. Ma proprio perché i suoi standard sono così elevati, la gente se ne sta seduta lì e dice: Come riesce Apple a fare una cosa del genere? Come fa Apple a creare prodotti così incredibili?

Ricordo una delle cose di cui si parlava con Steve; lui era solito chiedermi: “Come ha fatto Pepsi a creare una pubblicità così fantastica?” Mi ha chiesto se il merito fosse delle agenzie che avevo scelto. E io gli dissi come stavano le cose. Prima di tutto bisogna avere un prodotto interessante ed essere in grado di presentarlo come un’opportunità per fare una campagna pubblicitaria ardita, audace.

Ma una campagna pubblicitaria di successo viene da clienti eccellenti. I migliori creativi vogliono lavorare per i clienti migliori. Se siete un cliente che non apprezza un ottimo lavoro, o che non vuole correre rischi e provare cose nuove, o un cliente che non si lascia stimolare dall’aspetto creativo, allora siete il tipo sbagliato di cliente.

In molte grandi aziende, l’aspetto pubblicitario viene delegato ai livelli più bassi dell’organizzazione. Il CEO è raramente a conoscenza della pubblicità tranne quando viene presentata, quando è già tutto pronto. Non facevamo così in Pepsi, non facevamo così in Apple, e sono certo che Steve non fa così neanche adesso. È sempre categoricamente coinvolto nella pubblicità, nel design, in tutto.

D: Esatto. Ho sentito che Lee Clow prende l’aereo e si reca in Apple ogni settimana per parlare con Jobs.

Sculley: Una volta che si comprende che Apple è leader grazie al design, allora si potrà vedere che è proprio questo che la rende diversa. Guardi i negozi, osservi le scale dei negozi. Sono fatte di un vetro speciale che si è dovuto fabbricare appositamente. E questo è così tipico del modo di pensare di Steve. Tutte le persone che lo circondano sanno che si muove controcorrente, che segue il suo istinto. E che impone standard completamente diversi da qualunque altro CEO.

È un minimalista, sempre intento a ridurre le cose al loro livello più semplice. Non è semplicistico. È semplificato. Steve è un designer di sistemi. Semplifica la complessità.

Se siete una persona a cui queste cose non importano, finirete con l’ottenere risultati semplicistici. Trovo impressionante la quantità di aziende che commettono questo errore. Prendiamo lo Zune di Microsoft. Mi ricordo di essere andato al CES quando Microsoft presentò lo Zune, e l’evento è stato talmente noioso che la gente non andava nemmeno a vedere il prodotto — gli Zune erano praticamente morti. Era come se qualcuno avesse appena messo della verdura appassita in un supermercato. Nessuno voleva avvicinarsi allo Zune. Sono sicuro che è stato il frutto di persone molto intelligenti, ma è semplicemente un prodotto costruito secondo una filosofia diversa. La famosa affermazione su Microsoft, in gran parte veritiera, è che quell’azienda ci azzecca alla terza volta. La filosofia di Microsoft è quella di lanciare un prodotto prima, e di sistemarlo poi. Steve non farebbe mai una cosa simile. Non lancia mai un prodotto prima che venga perfezionato.

[Fine Seconda Parte]

[Terza Parte]

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