In questi giorni di silenzio ho raccolto qualche riflessione sull’argomento innovazione, più che altro perché ormai il termine mi pare davvero abusato e mi vien voglia di fare qualche distinguo, e poi perché mi è stata data l’occasione durante un mini-corso di informatica e design a cui ho partecipato in veste di ‘opinionista’, o co-conduttore che dir si voglia. L’incaricato di tenere il corso è un mio conoscente che ho aiutato nel suo passaggio da Windows a Mac, e con il quale abbiamo avuto modo di chiacchierare più volte su temi di tecnologia, usabilità, accessibilità, design, eccetera. Quando gli è stato affidato questo mini-corso, ha pensato di dargli un’impostazione un po’ insolita e di coinvolgermi — una maniera simpatica per estendere la conversazione a un pubblico più vasto, e chi meglio dei giovani virgulti universitari che fra pochi anni, se tutto fila liscio, saranno ingegneri, disegnatori industriali, e quant’altro.
Durante questo corso ci sono stati momenti estremamente istruttivi, ed è a uno di essi che mi voglio congiungere per affrontare il discorso innovazione in questa sede. Durante la prima giornata del corso, l’insegnante e il sottoscritto hanno lanciato una serie di argomenti più o meno provocatori per suscitare il dibattito. A me è venuto in mente l’articolo di Steven Frank sul dispositivo mobile ideale di cui ho parlato un paio di settimane fa, e così abbiamo provato a tastare il polso al nostro pubblico di studenti modificando leggermente la richiesta: “Pensate al panorama attuale dei computer portatili e dei dispositivi mobili in generale; una grande azienda del settore vi ha incaricato di realizzare un nuovo prodotto che contenga qualcosa di innovativo — un elemento, una tecnologia, un’idea che permetta di distinguere questo prodotto dagli altri”. Non volevamo creare un’atmosfera troppo austera, per cui abbiamo detto agli studenti di considerarla una seduta di brainstorming, per la serie ‘buttate carne al fuoco, cercate di non soffermarvi sull’immediata fattibilità dell’idea, ma cercate al tempo stesso di non sprofondare troppo nel fantascientifico’.
Ne sono venute fuori delle belle. Portatili realizzati con materiali derivati da plastica e gomma, per essere totalmente antiurto. Portatili con una tavoletta grafica al posto della tastiera. Computer di tipo Tablet che possono diventare un normale portatile agganciando la tastiera e chiudendosi a libro. Portatili con telecamera capace di effettuare la scansione della retina e che smettono di funzionare se non c’è il proprietario davanti. E via dicendo.
Non è e non voleva essere un test per trarne deduzioni scientifiche o statistiche, ma l’impressione che ho avuto ascoltando le proposte dei ragazzi è che innovazione debba spesso manifestarsi come qualcosa di radicale, di vistoso, di fantascientifico. È vero che avevamo detto agli studenti di non soffermarsi troppo sull’immediata fattibilità dell’idea, ma certe proposte tendevano a sfociare nel fantastico e nell’astratto. Non che le idee in sé fossero poi tanto male (a chi non piacerebbe un portatile che si ricarica con il movimento, come gli orologi automatici?), ma troppe avevano il sapore di essere feature fine a se stesse.
Innovare per innovare è un esercizio senza dubbio interessante. Senza ricerca, senza esplorazioni e brainstorming anche folli, non si va da nessuna parte e non si innova. Le novità in ambito tecnologico saltano fuori a ritmi considerevoli. Ma innovare in questo modo non è sufficiente. Non basta avere un’idea ‘originale’ o ‘innovativa’. Non basta nemmeno arrivare a costruirla e a brevettarla. A mio avviso l’innovazione, quella vera, non deve essere sempre necessariamente radicale, vistosa, fantascientifica. Deve soprattutto lasciare un segno. Mai come in questo campo (la tecnologia) occorre far tesoro dell’adagio “Non è tutt’oro quel che luccica”.
Una cosa davvero lampante saltata fuori durante la sessione con gli studenti è che le loro idee per una funzionalità innovativa in un computer portatile (o palmare) erano sempre svincolate dalla macchina stessa, non considerandone i limiti attuali, non considerando il contesto in cui mettere in pratica la loro idea geniale. Quando nelle discussioni a cui partecipo di persona con amici, oppure online, tiro in ballo usabilità e design sembro sempre ‘il solito fanatico della Mela’ e molti ancora erroneamente associano questi concetti a un discorso soltanto estetico, quando in realtà c’entrano poco o nulla. Il fatto è che senza considerazioni di design e di usabilità, un’idea (parlo sempre a livello tecnologico e informatico, ma il concetto si può estendere ad altre discipline) può essere innovativa finché vuole, ma farà poca strada.
Provo a fare qualche esempio. Quando si tira in ballo l’innovazione in materia di hardware, un elemento che tutti sentono il bisogno di modificare, alterare, eliminare, ridefinire, è la tastiera. È un retaggio delle macchine da scrivere, sa di vecchio. E allora ci si sbizzarrisce a creare dispositivi di input ‘innovativi’. Ho visto tastiere ad accordi, tastiere ergonomiche che permettono di scrivere con una mano sola, tastiere anatomiche, ecc. ecc. Alcuni solo prototipi, altri in commercio. Tutte idee strabilianti, molte con sistemi che permettono effettivamente una maggiore efficienza e velocità nell’immissione, ma tutte con un problema di fondo: per sfruttarle al massimo occorre imparare a usarle, e spesso la curva di apprendimento è abbastanza alta da scoraggiare l’utente (a meno che non sia costretto da una qualche disabilità che gli impedirebbe di utilizzare proficuamente una normale tastiera QWERTY). A questo si aggiunga la quasi totale ubiquità della tastiera classica: nel momento in cui il nostro utente diventato provetto nel maneggiare una tastiera esotica e innovativa si ritrova davanti a una QWERTY, ecco che il vantaggio e l’efficienza guadagnati vanno a farsi benedire.
Ci sono alcune pagine interessanti sulla tastiera nel classico The Psychology of Everyday Things di Donald Norman. Qualche breve estratto:
[…] Baloccarsi con il progetto della tastiera ideale è un passatempo diffuso. Alcuni schemi mantengono la configurazione esistente dei tasti, ma distribuiscono le lettere in maniera più efficace. Altri migliorano anche la disposizione fisica, adattandola in modo da rispettare la simmetria speculare delle due mani e tener conto della diversa agilità e distanza delle dita. Altri ancora riducono drasticamente il numero di tasti: un gruppo di tasti — un accordo — rappresenta una parola, permettendo di scrivere con una sola mano o con due mani a maggior velocità. Ma nessuna di queste innovazioni è stata realizzata perché la tastiera QWERTY, con i suoi difetti, è sufficientemente buona. Benché la sua disposizione pensata per evitare l’accavallarsi dei martelletti [della macchina da scrivere] non abbia più nessuna giustificazione meccanica, resta il fatto che molte coppie di lettere di uso comune sono assegnate alle due mani: una mano può prepararsi a battere il suo tasto mentre l’altra sta finendo, cosicché la velocità di battuta è migliore. […]
Poco oltre parla anche del sistema Dvorak:
C’è un sistema migliore [della QWERTY] — la tastiera Dvorak — laboriosamente messa a punto da uno dei fondatori dell’ingegneria industriale (da cui prende il nome). È più facile da imparare e permette un aumento di velocità di circa il 10%, ma questo non è un miglioramento sufficiente a legittimare una rivoluzione nella tastiera. Milioni di persone dovrebbero reimparare a scrivere a macchina. Milioni di macchine dovrebbero essere cambiate. I vincoli sostanziali della pratica preesistente impediscono il cambiamento, anche quando questo sarebbe un progresso.
E di seguito menziona le tastiere ad accordi, quelle usate dagli stenografi dei tribunali, che permettono un numero di combinazioni superiore e una velocità superiore a quella di qualsiasi dattilografo, dato che stampano direttamente sillabe e non singole lettere. Ma:
Le tastiere ad accordi presentano uno svantaggio tremendo: sono difficilissime da imparare e difficilissime da ricordare […]. Vi avvicinate per la prima volta a una tastiera normale e potete usarla subito: basta cercare la lettera che volete e pigiare sul tasto. Con una tastiera ad accordi bisogna premere vari tasti simultaneamente. Non c’è modo di contrassegnare i tasti e non c’è modo di capire come si fa solo guardando. […]
(D. Norman, La Caffettiera del Masochista — Psicopatologia degli oggetti quotidiani, Saggi Giunti, pagg. 167–168)
Adesso, tenendo presente queste considerazioni, guardiamo due esempi, tratti dallo stesso studio di design industriale, Art Lebedev. Forse ne avrete sentito parlare: sono i creatori della Optimus Maximus, una (costosissima) tastiera in cui ogni tasto è pienamente ridefinibile in quanto è un piccolo schermo che può visualizzare segni differenti. L’idea è eccellente e la realizzazione di ottima fattura. Affronta un problema non indifferente (l’uso agevole di più layout di tastiera senza usare mascherine per i tasti o, peggio, munirsi di più tastiere) e lo risolve in maniera innovativa e pratica.
Il secondo esempio è la Optimus Tactus. È ancora un concetto e non un prodotto finito, ma qui stiamo valutando l’idea sulla base dell’innovazione ‘vera’. Si tratta di una tastiera priva di tasti fisici, e quindi la versatilità di configurazione va ben oltre i singoli segni e si estende alle dimensioni dei tasti e alla loro disposizione. Nelle immagini di esempio si può vedere come sia riduttivo parlare di ‘tastiera’ con il progetto Tactus. È un dispositivo che può mostrare una grande quantità di varianti, anche riprodurre video. Un’idea innovativa? Potenzialmente sì, ma mi ricorda una delle idee tirate fuori dagli studenti durante il brainstorming di cui parlavo all’inizio. Il concetto di questa tastiera è attraente ma mi pare non tenga conto del fatto che in assenza di tasti fisici, e quindi di contorni e forme percepibili sotto i polpastrelli, è impossibile digitare senza osservare la tastiera, cosa che nessun dattilografo fa. Un conto è la tastiera virtuale di uno smartphone: vista l’area ristretta in cui si opera, area che viene spartita fra schermo e tastiera virtuale, è naturale che si scriva osservando la tastiera; in particolare, l’implementazione di iPhone, con il caratteristico feedback visivo e sonoro, la rende più facile da maneggiare. Ma una tastiera virtuale delle dimensioni di una tastiera normale (e soprattutto pensata per essere utilizzata in ambito desktop) non mi convince per niente.
Sempre per la serie “Non è tutt’oro quel che luccica”, prendiamo il nuovo Dell Latitude Z. È un portatile ultrasottile con schermo da 16″ e un sacco di ‘soluzioni innovative’. Intendiamoci, Dell ha realizzato un portatile senza dubbio interessante e uno dei pochi che ho visto finora che non cercano a tutti i costi di essere brutte copie di prodotti Apple. La tecnologia EdgeTouch (è possibile accedere alle applicazioni più usate toccando direttamente il bordo laterale dello schermo) mi sembra interessante e con un minimo di progettazione dietro: i controlli si trovano più o meno nel punto in cui l’utente afferra lo schermo con la mano per regolarne l’inclinazione, quindi sono piuttosto intuitivi da trovare e utilizzare.
Ma passiamo a un’altra delle tante innovazioni vantate da Dell per questo portatile — il sistema di ricarica della batteria a induzione. Il concetto, in breve, è lo stesso implementato da Palm con il Touchstone, un caricabatterie opzionale per il Pre che ricarica il telefono per induzione: nessun cavo, il telefono si aggancia alla stazione di caricamento con un magnete, e la batteria si ricarica grazie al contatto dei due oggetti. Questa idea, applicata a uno smartphone come ha fatto Palm, non è malvagia; considerate le piccole dimensioni del Pre, il Touchstone ha il suo perché e una certa praticità d’uso. Ma Dell ha voluto creare un simile caricatore per il Latitude, in forma di stand su cui appoggiare il portatile (è visibile nella pagina di Dell a cui ho linkato prima, in fondo al centro, dove dice “business package”). A parte il costo dello stand (349 dollari) e a parte il fatto che non è regolabile né in inclinazione né in altezza, chiamare questo sistema ‘rivoluzionario’ perché ‘senza fili’ mi pare un po’ esagerato. Per ricaricarsi, il portatile deve starci appoggiato sopra, e lo stand viene collegato alla corrente con un cavo. Nei video di presentazione delle caratteristiche e del design del portatile, viene sottolineata la praticità di questa soluzione mostrando l’utente tipo del Latitude Z che, giunto nel suo ufficio, appoggia il portatile sullo stand e poi usa il portatile in configurazione desktop, ossia collegato a monitor, tastiera, mouse esterni. Mentre lavora alla scrivania, il Latitude si ricarica. Comodo, ma chi non ha un monitor, tastiera, mouse esterni, se vuole utilizzare quello stand-ricaricatore mentre usa il computer non si ritroverà una soluzione altrettanto comoda. È chiaro quindi che quel tipo di utente non se ne farà nulla del rivoluzionario stand e si limiterà a usare il normalissimo alimentatore con cavo fornito di serie. Ah, e se poi si compra un monitor e vuole acquistare anche lo stand di ricarica, non avrà vita facile, perché l’apposita scheda da inserire nel computer per permettere questo sistema di ricarica a induzione, stando a quel che dice il sito, deve essere richiesta al momento dell’acquisto del computer (e sono altri 50 dollari). Insomma, occorre avere le idee chiare fin da subito.
Se vogliamo brutalmente metterci a fare la tabellina con i vantaggi e gli svantaggi, questa feature innovativa non ne esce tanto bene, e non pare ponderata in modo approfondito. L’impressione è proprio quella di sbandierare caratteristiche che provochino un effetto ‘wow’ ma poco altro. Specchietti per le allodole. O, se vogliamo essere meno trancianti, funzionalità ideate considerando un ventaglio limitato di utilizzi. Poco testate sul campo. Comode se utilizzate esclusivamente nella maniera presentata, un totale impaccio se si estende il raggio d’azione. Se alla fine risulta più pratico e maneggevole l’alimentatore classico, dov’è la reale innovazione dello stand di ricarica a induzione pseudo-wireless? L’innovazione, secondo me, sta altrove.
Innovare non è sempre infilare un elemento hardware o una tecnologia ‘mai vista prima’. A volte è riconfigurare elementi già esistenti in una maniera differente, originale e che, soprattutto, funziona. Che lascia il segno. Che spinge all’imitazione. Per questo mi scappa un po’ da ridere quando sento dire che Apple non sta innovando più e che pensa solo all’iPhone. iPhone stesso è tremendamente innovativo ed esemplare nel mostrare come sia possibile realizzare un prodotto di questo calibro riconfigurando ingredienti che, bene o male, erano già presenti nell’industria. Chi innova non sempre e non necessariamente deve essere un pioniere: basta che sappia applicare in maniera geniale anche un’idea non propria o non ricercata internamente. La tecnologia multi-touch esiste da prima di iPhone, ma l’implementazione di tale tecnologia su un dispositivo di piccole dimensioni da parte di Apple l’ha resa decisamente più praticabile di quei video dimostrativi che giravano per il Web con il tizio che si sbracciava su un intero tavolo multi-touch. Per questo sostengo che l’idea potenzialmente innovativa deve essere filtrata dal design e dall’usabilità per essere praticabile e per diventare vera innovazione arrivando a cambiare interi paradigmi di utilizzo. Per questo innovare davvero è difficile, e non basta il gadget, per sofisticato che sia.
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