Nelle mie ricerche mi sono imbattuto in un libro molto affascinante e direi miliare in materia di interfaccia utente (trattata in special modo da un punto di vista storico-evolutivo): Interface Culture di Steven Johnson. Il libro è del 1997, ma questo non toglie nulla alla sua validità e importanza per mettere in prospettiva certi discorsi ancora molto accesi oggi quando si parla di interfacce grafiche, metafora della scrivania, finestre vs. linea di comando. Non ho ancora terminato di leggerlo, ma lo sto divorando, anche grazie allo stile chiaro, lucido ed estremamente scorrevole dell’autore.
Riflettere sulle possibili evoluzioni dell’ormai pluriventennale metafora della scrivania, usata per l’interfaccia utente grafica dei maggiori sistemi operativi attualmente in circolazione, è una delle attività più stimolanti per me, appassionato di tecnologia, di storia dell’informatica e naturalmente di interfacce e usabilità. E il volume di Johnson è decisamente ricco di spunti in questo senso. Vorrei ricongiungermi ad alcuni di questi spunti, e dato che è piuttosto difficile non citare intere sezioni del Capitolo 2 (“The Desktop”, la scrivania) e del Capitolo 3 (“Windows”, cioè “finestre” — non l’omonimo sistema operativo), partirò provocatoriamente da questa frase, a chiusura di un paragrafo a pagina 57:
Gli errori e insuccessi concettuali della metà degli Anni Ottanta derivarono da una incapacità — o dal rifiuto — di considerare la potenza della metafora della scrivania. I fallimenti dell’epoca presente derivano dall’aver preso quella metafora in maniera troppo letterale.
Il passaggio dalla linea di comando all’interfaccia a finestre è stato epocale. Il vantaggio delle finestre non deriva tanto da una questione di memoria visiva e spaziale, come molti sono intuitivamente portati a credere. In un’interfaccia grafica che ricorda una scrivania, i documenti vengono distribuiti in modo spaziale; per questo, la percezione comune è che, nel ricercare un certo file, si pensi anzitutto in termini di ‘dove’ si trova, in che luogo. L’interfaccia grafica dà al file delle coordinate spaziali e delle proprietà analoghe a un file vero e proprio, del mondo reale. Ma, spiega Johnson, questa percezione è fuorviante proprio perché il sistema a finestre è molto flessibile, e anche i sostenitori più convinti dell’interfaccia grafica a finestre pensano ai loro file in termini testuali e conformi a interfacce UNIX o DOS:
Per comprenderlo basta fare attenzione ai nostri processi mentali quando stiamo utilizzando una qualche applicazione di gestione dei file, alla ricerca di un dato documento. In un sistema puramente spaziale, il nostro pensiero seguirebbe questa logica: “mi pare che il file si trovasse nella parte sinistra dello schermo, qualche livello più sotto”. Ma in realtà ciò che pensiamo è: “sono quasi certo di averlo messo nella cartella Cose da fare, ma forse si trova nella cartella Lavori in corso”. In altre parole, stiamo organizzando le informazioni in maniera testuale, seguendo delle categorie da noi stessi definite. La dimensione spaziale è soltanto un’illusione, ovvero l’illusione di un’illusione. Facciamo finta di ricordarci ‘dove’ abbiamo messo il file, ma ciò che stiamo veramente ricordando è semplicemente il nome della cartella che lo contiene. […] (L’unica eccezione è il caso di quei file o elementi che sono stati disposti direttamente sulla scrivania, aggirando del tutto il concetto di finestra. Queste icone possono sviluppare attributi spaziali genuini, rendendole più semplici da ritrovare — anche se la maggior parte degli utenti preferisce non riempire la propria scrivania con troppe icone).
In realtà, il vantaggio delle finestre deriva dalla possibilità di vedere più applicazioni/processi alla volta e di passare rapidamente dall’uno all’altro mettendo le singole finestre in primo piano. La finestra si rivela essere una maniera di visualizzare quel che i programmatori chiamano mode switch. Nell’uso quotidiano del computer, ormai, passiamo spessissimo da una modalità all’altra senza nemmeno accorgercene. Per esempio, si ha una modalità per creare un nuovo documento di testo, una modalità per editare un foglio di calcolo esistente, una modalità per riorganizzare una directory di file, una modalità per modificare le preferenze di sistema. Ai tempi della linea di comando — scrive Johnson — si doveva lanciare una di quelle modalità inserendo un’oscura sequenza di lettere, e i confini che delimitavano le singole modalità erano ben tracciati. Immettendo un comando si entrava in modalità gestione directory, scrivendone un altro si passava alla modifica delle preferenze di sistema, e via dicendo.
Occorreva naturalmente una certa opera di memorizzazione, e a volte ci si dimenticava in quale modalità ci si trovava. In generale, questo sistema era parecchio anti-intuitivo. Doug Engelbart e gli ingegneri dello Xerox PARC si resero conto che queste modalità potevano essere rimpiazzate da finestre; le finestre potevano rappresentare le modalità e soprattutto un sistema per passare da una modalità all’altra. Era difficile sbagliarsi: la modalità corrente sarebbe stata rappresentata dalla finestra attiva (ovvero in primo piano), mentre le altre avrebbero atteso il loro turno, stratificate in secondo piano.
Il passaggio dal concetto di modalità (mode) al concetto di finestre è stato un passo avanti in termini di facilità d’uso di una tale entità che, ancora oggi, è arduo pensare a un mondo digitale senza finestre. L’interfaccia grafica a finestre ha portato con sé una serie di convenzioni che sono diventate così naturali e familiari da essere ormai trasparenti per gli utenti. E così radicate che pare impossibile progredire. Dai primi Anni Ottanta a oggi, la ‘scrivania’ e le ‘finestre’ sono andate raffinandosi, espandendosi, rendendosi sempre più versatili, ma il succo della metafora è sempre quello. I progressi dell’interfaccia utente sono rimasti sempre circoscritti all’ambito della scrivania.
Periodicamente si riaccende il dibattito: bisogna trovare qualcosa che vada oltre la scrivania, si avverte l’esigenza di qualcosa di nuovo, ma proposte concrete non se ne vedono. Alan Kay [Wikipedia ING | Wikipedia ITA], ideatore della metafora della scrivania, ha lavorato alla creazione di altri progetti di interfaccia utente come Etoys o Croquet, ma sono progetti circoscritti e sperimentali. In Apple, negli Anni Novanta, si studiò a lungo un’interfaccia alternativa, in un progetto chiamato HotSauce o Project X, la cui idea fondamentale era sostituire il concetto di finestre con una navigazione più genuinamente spaziale, tridimensionale.
L’ostacolo più evidente, il macigno da superare sulla strada dell’evoluzione dell’interfaccia utente, è a mio avviso quel groviglio di abitudini + efficienza che ormai si è stratificato e raffinato nell’interfaccia grafica e nella metafora della scrivania attuali. Ed è a questo punto del mio ragionamento che ho pensato ancora alla macchina da scrivere, ovvero alla convenzione del layout di tastiera QWERTY universalmente adottato (con lievi variazioni a seconda dei paesi e delle lingue). In un mio articolo recente, Innovare è difficile, nel trattare i tentativi di innovazione nell’ambito dei dispositivi di input, facevo l’esempio della tastiera e citavo Donald Norman:
[…] Baloccarsi con il progetto della tastiera ideale è un passatempo diffuso. […] Ma nessuna di queste innovazioni è stata realizzata perché la tastiera QWERTY, con i suoi difetti, è sufficientemente buona. Benché la sua disposizione pensata per evitare l’accavallarsi dei martelletti [della macchina da scrivere] non abbia più nessuna giustificazione meccanica, resta il fatto che molte coppie di lettere di uso comune sono assegnate alle due mani: una mano può prepararsi a battere il suo tasto mentre l’altra sta finendo, cosicché la velocità di battuta è migliore.
[…] C’è un sistema migliore [della QWERTY] — la tastiera Dvorak — laboriosamente messa a punto da uno dei fondatori dell’ingegneria industriale (da cui prende il nome). È più facile da imparare e permette un aumento di velocità di circa il 10%, ma questo non è un miglioramento sufficiente a legittimare una rivoluzione nella tastiera. Milioni di persone dovrebbero reimparare a scrivere a macchina. Milioni di macchine dovrebbero essere cambiate. I vincoli sostanziali della pratica preesistente impediscono il cambiamento, anche quando questo sarebbe un progresso.
Ecco, sotto questo aspetto vedo un’analogia molto forte con l’attuale impasse dell’evoluzione della metafora della scrivania nell’ambito dell’interfaccia utente. Probabilmente da qualche parte esiste un progetto di interfaccia in grado di superare certi limiti della metafora della scrivania, ma il fatto è che abbiamo appreso una tale efficienza e sviluppato una tale profonda familiarità con concetti quali finestre, menu, pannelli, scrivanie e cestini, che si fatica a vedere qualcos’altro al di fuori di queste metaforiche quattro mura entro le quali ci sentiamo sicuri e produttivi.
Durante la scorsa decade — ed è evidente leggendo il libro di Steven Johnson — il progresso sembrava tutto nelle mani del 3‑D. Il già citato progetto HotSauce di Apple, l’estensione della metafora della scrivania operata da interfacce quali Magic Cap e Microsoft Bob (che immaginavano interi ambienti a circondare l’ufficio virtuale: corridoi, salotti, altri uffici, aree ricreative), progetti come The Palace di Mark Jeffries (che estendeva in ambito tridimensionale lo spazio tradizionalmente bidimensionale e testuale della chat, creando un mondo virtuale in cui i partecipanti alla chat venivano rappresentati da omini stilizzati disseminati in un ambiente e liberi di circolare e incontrarsi nelle sue svariate stanze; per capirci: una sorta di versione embrionale — siamo nel 1995 — dell’attuale Second Life), l’idea di prendere spunto dai mondi virtuali di due giochi di successo come Doom e Quake per creare un ambiente grafico ‘non-violento’ in cui collocare file, documenti, applicazioni… Tuttavia, la ragione primaria del fallimento di tali modelli stava (e probabilmente sta tuttora) nella loro inefficienza. Leggiamo le impressioni di Johnson in merito a HotSauce:
[…] Il prototipo di Apple serve a ricordarci quanto piccolo sia il ruolo giocato dalla memoria spaziale nelle moderne interfacce. Ho provato a fare un esperimento, una sorta di studio di caso, e per alcuni giorni ho utilizzato HotSauce come sostituto del mio sistema di gestione file, giusto per farmi un’idea più chiara di tutta l’esperienza. Le prime esplorazioni erano tremendamente divertenti, sembrava di star giocando a un videogioco più che navigare tra i miei file, ma l’eccitazione si è presto tramutata in irritazione non appena i limiti della navigazione si sono resi evidenti. Muoversi all’interno dello spazio richiedeva troppa attenzione e troppe energie, e finivo col concentrarmi più su come spostarmi e ‘sterzare’ col puntatore che non sui documenti che stavo cercando. […]
Mi sembra chiaro che, dopo il primo grande passo in avanti — dalla linea di comando alla scrivania e alle finestre –, la situazione si sia fatta sostanzialmente stagnante. Notare come gli sforzi innovativi odierni siano di contorno alla metafora della scrivania, più che tentare l’impatto diretto: tutto il furoreggiare dell’interfaccia multi-touch e dell’interfaccia tattile in generale, è sì uno sforzo verso una maggior efficienza, facilità d’uso, immediatezza e quindi (forse) produttività, ma non è un paradigma, non è una nuova concezione, una nuova metafora che definisce e regola l’ambiente dell’interfaccia utente. Siamo sempre qui a manipolare ‘documenti’ dentro ‘cartelle’ in ‘volumi’ all’interno di una ‘scrivania’. Li manipoliamo più direttamente, ma non diversamente dalla manipolazione mediata della coppia puntatore-mouse. Per tornare alla citazione di Johnson in apertura di articolo, I fallimenti dell’epoca presente derivano dall’aver preso quella metafora [della scrivania] in maniera troppo letterale.
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