In questi giorni sto cercando di organizzarmi per importare gli archivi di The Quillink Observer in questo sito. Dato che vorrei effettuare un trasloco ragionato, evitando di importare tutto indistintamente e dando priorità ai contributi qualitativamente più rilevanti, mi sono di fatto rimesso a leggere il mio materiale, partendo dal 2009 e andando a ritroso.
Mi sono imbattuto in Defacebook, che è lettura obbligatoria per capire più precisamente da dove arriva la mia forte antipatia nei confronti di Facebook. Sono passati più di due anni e mezzo: cos’è cambiato? Della mia posizione, praticamente nulla; della situazione ‘sociale’ intorno a me ho notato invece un triste peggioramento comportamentale in chi fa un uso praticamente esclusivo di Facebook come strumento di socializzazione.
In Defacebook, scrivevo:
Internet può essere un incredibile magnete per avvicinare persone attraverso il meccanismo delle affinità elettive. Poi però sta ai soggetti agire da soggetti, e lasciare che gli strumenti (il computer, lo smartphone, “Internet” in generale) siano appunto i mezzi, non il fine. Sì, perché grazie alla rete ho anche incontrato personaggi bizzarri e squilibrati (nell’accezione letterale di “mancanti di un equilibrio”), e persone le cui abitudini sono palesemente condizionate dal computer, dalla ‘socialità virtuale’ se mi passate il termine.
Esempi? Una collega di mia moglie abita con il suo compagno nel palazzo dietro il nostro, e organizza una cena in un ristorante che dista mezzo chilometro in linea d’aria dai due edifici, coinvolgendo persone che abitano tutte nel nostro quartiere. Come organizza? Con Facebook. Siamo in 6 persone, viviamo tutti nelle vicinanze, potremmo quasi comunicare gridando dai rispettivi balconi, per dire. Basterebbe un breve giro di telefonate. Basterebbe — orrore — passare dopo cena a fare una visitina. In fondo abbiamo tutti più o meno gli stessi orari. Eh, ma poi sono io a essere ‘della vecchia scuola’.
In tempi recenti ho osservato questo genere di dinamica organizzativa trasformarsi in qualcosa di sottilmente inquietante: chi è in Facebook ostracizza, in maniera più o meno esplicita, chi non è iscritto o non lo utilizza attivamente. Si dice che Zuckerberg abbia creato Facebook come strumento per sopperire alla sua incapacità personale di socializzare. A distanza di qualche anno, ecco avvenire quella che si potrebbe definire la ‘vendetta di Zuckerberg’: gli utenti del Grande Club Facebook escludono dai loro circoli gli altri, e li vedono quasi come dei retrogradi incapaci di socializzare alla nuova maniera e con gli strumenti di social network che sono tanto ‘in’ oggi.
In qualità di utente esperto e persona aggiornata in materia di tecnologie — ma non utente di Facebook — un particolare vagamente irritante è quello di essere guardati con sufficienza da persone che a malapena sanno usare un computer ma sono provette ed efficienti in tutto quel che riguarda Facebook. Più seriamente, preoccupa il fatto che alcune persone si vedano costrette (fra virgolette) a doversi iscrivere a Facebook se non vogliono essere tagliate fuori dalla cerchia di amicizie. Intendiamoci, non è un tagliar fuori inteso come ‘appena ti vedo cambio marciapiede’. Il fenomeno è molto più sottile e a volte forse anche involontario: si va dal non aggiornare l’amico senza Facebook sugli ultimi sviluppi interpersonali, al dimenticarsi di coinvolgerlo in attività di gruppo come il cenare fuori, o l’andare al cinema o a un concerto, fino ad arrivare a momenti di imbarazzo in cui la persona-con-Facebook e la persona-senza-Facebook si incontrano faccia a faccia e la persona-con-Facebook si trova a disagio nel raccontare le sue vicende lavorative e personali e liquida la chiacchierata con un Certo, se anche tu fossi su Facebook sarebbe tutto più comodo. (Visto e sentito di persona). Che a me viene da rispondere Certo, se avessimo tutti il dono della telepatia sarebbe più comodo invece di star qui a sprecare fiato.
È istruttivo vedere come uno strumento che dovrebbe servire a socializzare possa portare a comportamenti talvolta diametralmente opposti. In un gruppo di 10 amici, gli otto assidui utilizzatori di Facebook tenderanno a formare un sottogruppo, inconsciamente o meno, e gli altri due si ritroveranno all’improvviso in una posizione ‘scomoda’: da un lato sono sempre amici, quelli con i quali si sono condivise tante cose nell’era pre-Facebook; dall’altro sono quelli che non usano Facebook, e allora o li si convince a convertirsi, oppure saranno sempre quelli che non capiranno il riferimento a una certa foto o episodio o evento di cui si parla su Facebook con gli altri, che non stanno al passo con ‘le ultime’ del gruppo, e che barba dover spiegare ogni volta. Alla lunga il gruppo originario di 10 persone, in un certo qual modo, viene fratturato, segmentato dal fattore Facebook. Sono dinamiche persino comprensibili fra adolescenti, ma francamente discutibili fra persone adulte che dovrebbero comportarsi in maniera un po’ più matura.
Non nego la comodità e l’immediatezza di certi strumenti ‘sociali’ come Facebook, ma mi rattrista vedere certi effetti collaterali del loro abuso. È come se certe persone diventassero più sedentarie nel gestire i propri rapporti interpersonali e non volessero prendersi la briga di coltivare relazioni con quelle persone che non utilizzano gli stessi strumenti. E il bello è che oggi non siamo affatto privi di mezzi per comunicare, solo che alcuni sembrano non voler vedere più in là di Facebook. I rapporti umani sono qualcosa di molto più ricco del mettere online foto, messaggi di stato e commentini; queste cose sono un ottimo condimento, per carità, ma ho l’impressione che per molti stiano diventando sempre più il piatto principale.