Alla fine di aprile, Paul Miller di The Verge pubblicava un articolo in cui spiegava che a partire da maggio avrebbe lasciato Internet per un anno. Essendo Internet, e specialmente il panorama dei blog a sfondo tecnologico, il solito covo di comari, era ovvio e prevedibile che una mossa come questa avrebbe scatenato un dibattito. Su Twitter ho smesso di contare le battute e l’ironia nei confronti di Miller, e la generale immaturità delle reazioni mi ha portato a reagire a mia volta sottolineando sarcasticamente come, con un’Internet così matura e aperta alle opinioni altrui, chi mai potrebbe pensare di abbandonarla un anno?
Al centro delle ragioni di Miller c’è questo passaggio:
Ora voglio osservare Internet da una prospettiva più distante. Separandomi dalla costante connettività potrò meglio distinguere quali aspetti [di Internet] abbiano veramente un valore, quali rappresentano solo delle distrazioni, e quali parti stanno avvelenandomi l’anima. Quel che mi preoccupa è che il mio essere diventato talmente ‘esperto’ all’uso di Internet mi ha reso possibile impiegarla per riempire ogni minimo interstizio della mia vita, e sono abbastanza sicuro che Internet abbia invaso certi spazi che non le appartengono.
Molte delle reazioni più critiche nei confronti di Miller (critiche e serie, intendo dire) tendono a sottolineare come questo esperimento sia fondamentalmente privo di utilità, perché in sostanza, una volta terminato il periodo offline, tutto ritorna come prima. Altri, come Petrucci e Corti hanno sostenuto come eliminare in toto Internet sia un approccio inutilmente drastico, e in ultima analisi inefficace, uno stato di auto-castrazione forzato che vorrebbe risolvere un problema eliminandolo del tutto; mentre invece sarebbe preferibile un approccio più ragionato e selettivo, potando i rami superflui, per arrivare a un rapporto più bilanciato con la dimensione attuale della connettività sempre attiva.
A mio parere hanno tutti un po’ di ragione, ma tendo a simpatizzare con Miller e le sue intenzioni, e credo che in parte sia stato frainteso. Come ho già sostenuto altre volte, considero Internet e questa dimensione del ‘sempre online’ come una sorta di droga necessaria. Necessaria non tanto perché sia indispensabile, quanto perché si tratta di un ingrediente della realtà di oggi con cui occorre fare inevitabilmente i conti, in un modo o nell’altro. Internet agisce esattamente come qualsiasi altra droga, alcool e fumo compresi, creando una assuefazione e una gratificazione istantanea che spingono gli utenti a volerne sempre di più. Con la mostruosa propagazione di smartphone e tablet, il ‘fare cose online’ non è più un’attività relegata allo stare davanti a un computer in una camera, studio o ufficio. È come avere una scorta infinita di sigarette sempre con sé, o una fiaschetta di whisky che non rimane mai secca. E come qualsiasi altra droga, Internet cambia le abitudini delle persone (personalmente ritengo che le cambi in peggio, ma non è di questo che voglio parlare adesso).
A tante persone i cambiamenti portati da quest’Internet sempre più intrusiva vanno benissimo, vuoi perché hanno istintivamente trovato un proprio equilibrio, vuoi perché per loro lo stare collegati tutto il giorno non è un problema e non viene percepito come tale. Per chi invece si rende conto — come Miller — che l’onnipresenza di Internet sta diventando qualcosa che porta un impatto dannoso alla propria vita, il problema diventa come ‘disintossicarsi’ o almeno come regolarne l’intossicazione (e questo è il mio caso, in quanto il mio lavoro semplicemente mi impedisce di scollegarmi completamente da Internet per un anno, anche se avrei voglia). Ed è qui che le cose si complicano, in quanto di solito la soluzione a qualsiasi problema di droga è la disintossicazione: per curarsi definitivamente, qualsiasi drogato, fumatore, alcolizzato deve smettere di assumere la droga, punto e basta. Dire a un eroinomane “devi diminuire la dose”, a un fumatore “devi fumare meno”, a un bevitore “abbandona il whisky e bevi solo due bicchierini di vino a pasto” sono suggerimenti che non risolvono il problema. In questi casi è davvero una questione in cui le cose sono o bianche o nere. Con Internet siamo in piena scala di grigi.
Con Internet ognuno deve trovare un proprio sistema per regolare l’intossicazione. Ripeto, c’è chi riesce a farlo con continui aggiustamenti di tiro, ogni giorno, in tempo reale. C’è chi riesce a trovare un equilibrio fra vita online, bombardamento di informazioni, momenti di stacco da condividere di persona con amici e familiari. Poi ci sono persone come Miller, le quali, con ogni probabilità, hanno tirato avanti credendo che tutto andasse per il meglio finché un bel giorno sono arrivate a un punto di saturazione/rottura in cui si sono rese conto che le cose stavano perdendo il controllo. A un mio conoscente è successo quando, in una situazione di emergenza, era più impegnato a scrivere su Twitter della situazione di emergenza che non a mettersi in salvo, tanto gli si erano accumulati i riflessi condizionati.
Ecco, può darsi che l’idea di Miller di sganciarsi per un anno da Internet sia una sciocchezza, ché tanto poi a maggio 2013 tornerà a riconnettersi e nel giro di una settimana si ritroverà a vivere esattamente come prima, e che quindi non avrà risolto nulla. Però questo suo esperimento può anche servirgli a capire meglio quali parti di Internet siano indispensabili e quali meno e quali siano del tutto eliminabili, come del resto egli stesso ha dichiarato. (Soprattutto, un tale periodo di distacco può essere utile per togliere di mezzo certi riflessi condizionati della nostra interazione quotidiana con l’online, specie per quanto concerne reti sociali e servizi affini). Magari altri nella sua posizione hanno bisogno semplicemente di una settimana offline, o di un mese, ma non siamo tutti uguali e ritengo sia giusto rispettare la scelta di Miller, invece di reagire con sarcasmo o pensando che i propri metodi di vivere Internet siano i migliori o siano applicabili a chiunque indiscriminatamente.