L’estate con due facce
Luglio è stato un mese particolarmente intenso sotto il profilo lavorativo. Come ho avuto modo di delineare in Post-holiday miscellany, l’aggiornamento che ho pubblicato su System Folder (il mio blog dedicato ai Mac vintage), in questi ultimi tempi le mie priorità sono state (in ordine decrescente):
- La famiglia
- Il lavoro
- La mia scrittura creativa (se avete padronanza dell’inglese, e se vi interessa, seguite il mio piccolo progetto Minigrooves)
- Questo sito
- La manutenzione dei miei Mac d’epoca, e tutti gli altri miei progetti attivi
Osservando questo elenco, è evidente che quando il lavoro comincia a inghiottire una grossa fetta del mio tempo, tutto il resto tende a passare in secondo piano. Non è che la cosa mi piaccia particolarmente: sono sempre dell’idea che dovrei investire più tempo ed energie in questo sito, per farlo diventare (anche) un’ulteriore fonte di introiti. Ci sono riuscite persone che non definirei proprio dei geni, non vedo perché non dovrei riuscirci io. D’altro canto sto già fin troppo davanti al computer per lavoro, e quando arrivo a fine giornata esausto e con gli occhi un po’ affaticati, continuare a rimanere al computer anche per cose più piacevoli è un’attività che non sempre riesco a portare avanti. Le giornate dovrebbero davvero essere di 48 ore da questo punto di vista.
Alla fine di luglio mi sono reso conto del livello di stress provocato dal lavoro e dal fatto di non essermi preso una vacanza come si deve dal 2009 o giù di lì. Ho quindi deciso di fare qualcosa di estremamente tradizionale: passare agosto in completa vacanza, non portandomi appresso né il MacBook Pro né strascichi lavorativi; ho consegnato tutto quel che dovevo consegnare ai clienti entro i primi di agosto, e ho inviato una comunicazione dicendo che sarei stato nuovamente disponibile a settembre.
Perché “L’estate con due facce”? Perché a un luglio passato in gran parte al computer e immerso nel lavoro è seguito un agosto di calma piatta, in cui l’obiettivo principale è stato riposare davvero, scollegandomi da Internet e portando con me soltanto l’iPad — più come quaderno d’appunti e strumento creativo che per tener d’occhio la posta elettronica.
(Ad aiutarmi in questa disconnessione, fra l’altro, ci ha pensato Tre. Avevo ancora attiva una chiavetta USB con una SIM associata a un profilo dati SuperWebQualcosa, che mi garantiva una navigazione a 90 centesimi l’ora. Non avendo con me nessun computer a cui collegare la chiavetta, mi sono portato il mio vecchio iPhone 3G, ho tolto la SIM dalla chiavetta e l’ho infilata nell’iPhone, il quale avrebbe poi condiviso la connessione agendo in pratica come access point wireless. La cosa aveva funzionato benissimo sei mesi prima, quindi ho pensato non vi fossero problemi. Il secondo giorno di vacanza sono andato a un Bancomat per mettere 30 Euro di ricarica sul numero della SIM di Tre, e più tardi mi sono collegato senza intoppi. La mattina del giorno dopo, però, ricevevo un SMS che mi informava che il mio credito stava per terminare. Al che ho dedotto che il profilo dati SuperWebQualcosa era andato a farsi benedire, che avevo consumato 30 Euro di traffico in poche ore senza il benché minimo avviso da parte di Tre. Sulla pagina Web apposita non si vedeva nulla perché quella parte del sito era ‘in manutenzione’ e insomma non avevo modo di controllare profili e credito residuo. Bello scherzetto, Tre, non c’è che dire. Infuriato, ho deciso di buttare la SIM e di non avere più nulla a che fare con Tre.)
Osservazioni di un disconnesso
Malgrado sia ormai sciocco parlare di ‘vita online’ e ‘vita offline’, in quanto grazie alla progressiva penetrazione di smartphone, tablet e reti sociali stiamo effettivamente vivendo una dimensione in cui l’online e l’offline hanno contorni sempre più attenuati, io continuo ad avvertire una certa scissione tra le due sfere. Il perché è presto spiegato: ho vissuto il momento di transizione, il momento in cui da un menu ‘Connessione’ si avviava un modem (da 14,4 mbps) e si ‘andava online’. Ho vissuto un periodo in cui il collegarsi a Internet era un’attività specifica, che occupava un suo posto più o meno fisso fra le altre attività di una giornata. Era un’epoca in cui l’essere permanentemente connessi alla rete (come oggi) era tutt’altro che scontato. E molto probabilmente l’idea sarebbe stata considerata roba da matti. Oggi il tutto è assai più fluido, ma a me è rimasto dentro questo ‘andare online’ e non sono mai riuscito a considerare Internet come una parte completamente integrata della mia vita. La stragrande maggioranza del tempo che passo collegato è per lavoro, e questo sicuramente contribuisce a mantenere quella scissione fra online e offline che molti (specie i giovanissimi) oggi non avvertono.
Così, quando posso, cerco di lasciar perdere la sfera online il più possibile, e cerco di passare almeno un mese all’anno quasi del tutto ‘disconnesso’ (quasi, perché è importante che dia un’occhiata all’email almeno una volta alla settimana). Durante il mio agosto offline ho potuto osservare alcune cose interessanti.
La prima, su di me. Lo stare in campagna, in un luogo isolato e senza la possibilità di collegarmi facilmente a Internet, ha avuto un effetto benefico sia sui miei livelli di stress, sia per quanto riguarda il discorso creativo. Ecco che l’iPad non era più uno strumento per controllare la posta, navigare il Web, seguire Twitter e quant’altro, ma per scrivere, disegnare, dipingere, leggere libri, svagarmi con qualche giochino. Tutte cose — mi si dirà — che si possono benissimo fare anche quando si è connessi. Mi si dirà che Internet non è male di per sé, che siamo noi a scegliere quanto tempo dedicare al Web, all’email, alle reti sociali, e quanto tempo dedicare ad attività più creative. È vero, ma è noto che noi esseri umani siamo un disastro in fatto di autodisciplina, specie quando c’è di mezzo qualcosa di appagante. E avere Internet sempre a portata di mano è appagante a prescindere dallo scopo ultimo con cui la utilizziamo: se vogliamo ammazzare il tempo passando da una stupidaggine all’altra, Internet è perfetta. Se vogliamo soddisfare la nostra sete di conoscenza passando da un articolo interessante a un altro, Internet è perfetta. Il risultato non cambia: quando l’occhio cade sull’orologio, ecco che se n’è andata mezza giornata.
Per questo motivo non trovo del tutto stupido o inutile crearsi delle piccole barriere artificiali che aiutino a riportare il fuoco sulla nostra dimensione più personale, che ci aiutino a concentrarci su quel che può essere una lettura, un progetto, un qualcosa di creativo. Che ci aiutino a produrre determinate cose per il gusto di farlo, non sempre in funzione di pubblicare online, di ‘condividere’, di ‘socializzare’ la nostra produzione. Tornando a me e all’iPad usato senza Internet, il risultato è stato sottilmente sbalorditivo: una trentina di disegni (e Paper è davvero un bello strumento), svariati appunti per una dozzina di racconti brevi, e finalmente ho potuto terminare di leggere due lunghi romanzi e un altro libro più tecnico. Tutte cose che, normalmente, avrei forse ultimato diluendole in un arco di alcuni mesi.
La seconda osservazione, sugli altri. Non è per suonare il solito disco “Come ci riduce la tecnologia” — non nego né ho mai negato gli aspetti positivi e i benefici apportati dal progresso tecnologico — ma durante il mio periodo offline ho potuto osservare con più attenzione i comportamenti di chi mi stava intorno e… beh, un po’ mi sono intristito. Il dettaglio più affascinante, per così dire, è come lo smartphone sia diventato il tappabuchi universale. Appena c’è quel minuto libero (l’attesa alla fermata dell’autobus; la fila un po’ più lunga alla cassa del supermercato; persino — visto coi miei occhi — al distributore di benzina self-service, mentre si aspetta che la pompa riempia il serbatoio) ecco la persona di turno estrarre lo smartphone e perdervisi come ipnotizzata dallo schermo retroilluminato e palesemente dimentica di tutto quel che la circonda.
Tempo fa girava per la rete il link a un video di YouTube in cui si vedeva una tizia in un centro commerciale statunitense così presa dal mandare/ricevere messaggi sul suo cellulare da cadere in una fontana. Sono situazioni un po’ eccessive, ma non così tanto improbabili. Nel mio piccolo ho visto anch’io qualche scenetta tragicomica, come una ragazza completamente immersa nel suo smartphone mentre cammina per strada, al punto di non accorgersi di andare a sbattere contro un ragazzo giusto mentre quest’ultimo (un turista?) stava scattando una foto; oppure la signora anziana a cui cade la borsa della spesa alla fermata dell’autobus e nessuno dei vicini se ne accorge o l’aiuta perché concentrati sui loro schermi portatili. Scene viste più spesso di quanto mi aspettassi, e che, passato il primo momento in cui viene da sorridere e scuotere la testa, lasciano un po’ di tristezza.
Non sto dicendo che bisogna ritornare al passato, ai bei tempi andati, e buttare lo smartphone. Ma di riattivare una certa dose di buonsenso e di ricominciare a guardarsi intorno, almeno quando si cammina per strada. Di fermarsi un momento e pensare che si potrebbe riprendere a leggere il fottuto ebook una volta saliti sull’autobus o sul treno, invece di stazionare come zombie alle varie fermate. Per quanto sia bello e interessante quel che appare sullo schermo del dispositivo che si ha in mano, là fuori c’è sempre il mondo, con persone, ostacoli da evitare e leggi della fisica. O dopo le pubblicità progresso che avvertono dei pericoli di inviare messaggi mentre si guida bisognerà arrivare a creare campagne che invitano a non perdersi in chat e SMS mentre si cammina?
Il bisogno di isolarsi mentre si è fuori per la città e in luoghi di passaggio (come sui mezzi di trasporto) c’è sempre stato: prima dello smartphone c’era il lettore MP3, e prima il Discman, e prima il Walkman, ma l’ascoltare musica in cuffia permette comunque una certa consapevolezza dei nostri dintorni. Lo smartphone tende a catturare quasi del tutto la nostra attenzione, e l’isolamento aumenta. Questo potrà andar bene a molti. A me non piace e la trovo una tendenza davvero triste. Entri in un bar sulla cui porta d’ingresso c’è l’adesivo “Qui Wi-Fi gratuita”, e i tavoli sono occupati da un tizio che digita furiosamente su un patetico clone del MacBook Air mentre ascolta musica in cuffia; da un altro tizio che sfoglia pagine elettroniche sul suo iPad con una mano, e con l’altra cerca automaticamente di afferrare (senza riuscirci) la tazza del cappuccino ordinato probabilmente una mezz’ora prima; e più in là l’apoteosi: famigliola composta da padre immerso nella lettura sul suo iPad, madre immersa nella lettura di un libro cartaceo, figlia immersa… nella sua coppetta di gelato, nessuno dei quali si scambia una mezza parola. Mah.
Il dopo-vacanza, il deserto dei Tartari, e di cosa vale la pena parlare
Al mio rientro, la prima preoccupazione è stata smaltire la quantità di email che si sono accumulate in quasi cinque settimane offline. Ma a questa si è subito sovrapposta un’altra preoccupazione: i clienti che non pagano quando dovrebbero e che non si degnano nemmeno di mandare un qualsivoglia messaggio per informarmi del problema o del ritardo. Non faccio nomi, mi limito a far notare ancora una volta come il lavoro di un traduttore professionista non venga considerato degno di un pagamento puntuale, e quindi di riscontro e di rispetto. Io fornisco un servizio, come tanti altri professionisti. Si pagano senza fiatare le competenze di avvocati, notai, medici specialisti, carpentieri, idraulici, elettricisti, tecnici riparatori, ecc. Di fronte a un traduttore o a uno scrittore tecnico, chissà perché, un sacco di gente si sente autorizzata a trattare sulle tariffe, a dare consigli su come fare il lavoro, a non mantenere le scadenze quando è ora di saldare una fattura, e via dicendo. Ho le mie spese da pagare come tutti, e il lavoro di traduzione e di scrittura non è un hobby, come magari certi pensano. E se ci sono problemi reali per pagare i miei servizi, perché non ammetterlo? Perché non instaurare una comunicazione adulta? Perché tirar fuori stupide scuse che puzzano di presa per i fondelli lontano un chilometro e insultare la mia intelligenza? Misteri del mestiere.
Tornando ai messaggi email accumulatisi durante la mia permanenza offline, mi ha fatto piacere leggere interventi di qualche mio lettore che mi chiedeva sostanzialmente che fine avessi fatto. “Mi mancano le tue lunghe e meditate analisi di una volta,” scrive Giorgio riferendosi agli articoli che ero solito pubblicare sul vecchio blog tutto italiano Autoritratto con mele; “Mi aspettavo una tua opinione sulla faccenda X o sul prodotto Y”, scrive Roberto. “C’è speranza di leggerti ancora in italiano o hai lasciato perdere?” scrive Andrea. E così via.
Mi sembra doveroso rispondere un po’ a tutti: mi spiace che i miei lettori italiani si sentano piantati in asso, e non era certo nei miei piani lasciar passare più di tre mesi dall’ultimo aggiornamento. Anche a me mancano certe analisi che ero solito scrivere fra il 2006 e il 2010 (il periodo più attivo del vecchio blog). Il fatto è che ho meno tempo di una volta. Avendo meno tempo, cerco di dare priorità ad argomenti che reputo più essenziali di altri. Poi ci sono questioni che non mi interessa affrontare. O argomenti di cui si sa poco a livello fattuale e che finirebbero con l’essere pura speculazione. O altre tematiche per le quali, in tutta onestà, c’è meno da dire di quel che sembrerebbe a prima vista. Il Surface di Microsoft, per esempio. Che dire? Che sembra un prodotto interessante, ma finché non lo vedo funzionare come si deve sono tutti discorsi campati per aria, ipotesi, eccetera.
E sono sempre combattuto: da una parte, i blogger più conosciuti e più di successo suggeriscono sempre di ‘mantenere viva l’attenzione dei lettori’ pubblicando e aggiornando il blog frequentemente; dall’altra non sono intenzionato a trasformare il mio sito in uno di quei blog che sfornano 10 post al giorno, i quali non sono altro che link veloci ad articoli altrui con una riga di commento.
È mia intenzione proporre nelle prossime settimane una serie di articoli di opinione apparsi nella mia rubrica Appunti della rivista iCreate negli ultimi due anni. Intendiamoci, non è un’operazione vòlta a riciclare brutalmente dei contenuti tanto per aggiornare la sezione italiana del mio sito. I pezzi che ripubblicherò saranno riveduti e arricchiti (qui non ho limiti sulla lunghezza degli articoli), e comunque mi sembra giusto che raggiungano un pubblico più vasto e che al tempo stesso vengano archiviati online e non solo sul mio Mac.
Per concludere: no, non ho lasciato perdere. Sto semplicemente cercando di star dietro a tutto e di non affogare, che non è facile quando anche la salute gioca brutti scherzi. Per intanto, grazie di aver letto fin qui.