Leggendo il blog di Fabrizio Rinaldi, ho notato un articolo con cui mi trovo particolarmente in accordo. Si intitola Se non è perfetto fa schifo, e in esso Rinaldi condivide alcune riflessioni sulla progressiva semplificazione — o impoverimento — del metro di giudizio che molte persone manifestano online, partendo da Twitter, ma non solo.
La conseguenza tanto estrema quanto frequente è che la discussione finisca – se ha avuto modo di iniziare, si intende – con un asettico «c’è il tasto defollow». [Per dire: puoi smettere di seguirmi.] È deprimente. Anche quando non si arriva a tanto, la scarsità dei caratteri a disposizione e anche il modo in cui ci rapportiamo a questi strumenti per comunicare, rischia sempre di far sì che si finisca per dire bianco o nero, dimenticandosi della scala di grigi che giace dimenticata nel mezzo.
Oltre ad aver notato lo stesso fenomeno, aggiungo che più si va avanti, più questi strumenti per comunicare mi sembrano essere nient’altro che strumenti per trasmettere. È un paradosso di cui ho già avuto modo di parlare: oggi abbiamo a disposizione una varietà di strumenti di comunicazione impensabili soltanto cinquant’anni fa. Abbiamo dispositivi, tecnologie, protocolli grazie ai quali possiamo scambiare messaggi, fotografie, video, istantaneamente con più persone all’altro capo del mondo. Eppure è come se, in fondo, finissimo con il comunicare peggio. C’è una frattura che tende a separare sempre più l’ascolto e l’espressione, la ricezione e la trasmissione. Si ‘comunica’ di più e ci si comprende meno. Se pensate che sia un’esagerazione, un esempio banale: vi è mai capitato di fraintendere qualcuno per aver letto un suo messaggio troppo superficialmente, o per aver decontestualizzato una sua frase che a tutta prima ‘stonava’, saltava all’occhio e vi irritava al punto da non fare caso alle sue spiegazioni o giustificazioni, o magari semplicemente perché mancava dell’emoticon giusta al posto giusto?
E se avete mai partecipato a qualche estenuante discussione su forum, mailing list e affini, vi è mai capitato di pensare Mi sembra di star parlando un’altra lingua quando l’interlocutore di turno travisava persino i vostri passaggi più chiari e apparentemente banali?
Ho sempre considerato la comunicazione come qualcosa di veramente costruttivo: un ascoltarsi reciproco, innanzitutto; un mettersi in gioco mentre ci si confronta su un argomento qualsiasi, per imparare qualcosa gli uni dagli altri. In teoria, questo è arricchito quando a confrontarsi sono interlocutori con specialità differenti: la competenza dell’uno può aiutare l’altro a colmare lacune, a correggere preconcetti, e così via. Io ho appreso moltissimo da persone che evidentemente ne sapevano più di me in certi ambiti, e mi auguro che la cosa sia stata reciproca. L’elemento chiave è l’ascolto, la ricezione. Oggi, online, è evidente come siano la trasmissione e l’espressione ad avere la meglio. Tutti scrivono, tutti dicono, tutti hanno un’opinione e te la devono propinare a qualsiasi costo e di fronte a qualsiasi obiezione. E alla fine di una discussione, se di discussione si può parlare, ognuno rimane fermo nelle sue posizioni. Non c’è arricchimento, solo sfinimento e irritazione.
Continua Rinaldi:
Mi sto accorgendo sempre più spesso che in generale c’è qualcosa che non va nei nostri metri di giudizio, e mi sono accorto che se io cerco sempre di valutare le cose in modo equilibrato (molte volte, inevitabilmente, senza riuscirci), la maggior parte delle persone si accontenta più o meno di qualunque cosa senza preoccuparsi troppo, limitandosi ad un “Mi piace” o “Non mi piace” (anche se siamo in un momento storico che sembra volerci far piacere tutto a prescindere).
Sì, siamo in un momento storico in cui la presenza di Internet nelle nostre vite sembra agire negativamente sulla nostra capacità di discernere, di giudicare in maniera articolata. Finiamo con l’impigliarci nelle dicotomie forzate delle reti sociali, e le nostre espressioni per giudicare diventano pulsanti “Mi piace” / “Non mi piace”, o il pollice su / pollice giù di YouTube. O anche le valutazioni con le stelline sugli App Store vari: qui è utile leggere le critiche, perché malgrado il giudizio sia esprimibile con sfumature che vanno da una stella (“orrendo!”) a cinque stelle (“fantastico!”), le critiche degli utenti sono molto più polarizzate (e ingiuste: vedasi i giudizi a una stella dati perché un’applicazione venduta a 89 centesimi viene considerata un furto).
Ma non è questo atteggiamento a crearmi disagio – anzi, si potrebbe dire che è assolutamente legittimo accontentarsi di tutto – bensì quello di una minoranza di esperti che pretende che ogni cosa sia stupefacente oppure una merda, come se non potesse esistere nulla nel mezzo. E con esperti intendo esperti in qualunque cosa, dalla cucina al filmmaking. […] Non voglio dilungarmi oltre, ma il punto è che ritengo che non esista un livello di expertise che renda legittimo il considerare qualunque cosa che non sia perfetta, un disastro totale.
È vero, e la cosa ancora peggiore è che spesso a muovere certe critiche trancianti condensate in una frase (o in una sola parola) non sono nemmeno esperti, ma persone che si credono tali solo per aver letto un paio di libri su un determinato argomento. Giusto un anno fa scrivevo in Siamo tutti bravi:
…Mi riferisco al liquidare il lavoro altrui in quattro parole, in un commento magari condito con quel pizzico di acidità per fare il figurone con la propria cerchia di conoscenze (online e offline). È ancor più irritante quando la critica è rivolta a un prodotto che nemmeno si è provato, o che si è provato per un intervallo di tempo assurdamente breve. Intendiamoci: capita di imbattersi in quell’applicazione, servizio, dispositivo che sappiamo da subito non ci sarà utile. Purtroppo, dalla preferenza personale al sentenziare che l’oggetto in questione è inutile, sarà un flop, è progettato da schifo, il passo è sempre più breve. Ultimamente pare che sul Web tutti diventano ingegneri, designer, progettisti, tipografi, sviluppatori e — soprattutto — punti di riferimento del buon gusto dall’oggi al domani, nel giro di un post o di un tweet. Mi stupisco che non si viva già in un mondo migliore, vista la quantità di gente così in gamba nel giudicare in un istante quel che è buono e ciò che va scartato.
Anche qui, in un mondo ideale l’esperto, quello vero, è qualcuno dotato appunto dell’esperienza necessaria che dovrebbe permettergli di non vedere il mondo o bianco o nero. L’esperto, quello vero, dovrebbe essere una figura dotata della raffinatezza necessaria a esaminare le sfumature di grigio, ad apprezzarle, e a esprimere un’opinione o giudizio che riflettano tali sfumature. Ho avuto la fortuna di incontrare persone così (in carne e ossa o attraverso Internet), ma sembrano ogni giorno più rare.
Oggi sembra che il successo e la popolarità abbiano più valore dell’esperienza vera e propria in un determinato campo. Ho assistito tempo fa a una discussione su Twitter fra un Web designer sicuramente in gamba, e piuttosto popolare e un altro Web designer molto meno noto ma evidentemente più competente in materia. La sua maggiore competenza sarebbe risultata evidente a qualsiasi persona che si fosse presa la briga di andarsi a leggere una serie di articoli che questo tizio aveva pubblicato sul suo sito. La discussione, invece, ha coinvolto svariati fan del designer più noto e più carismatico, e quando costui ha detto all’altro che sostanzialmente non aveva capito un accidenti del suo punto di vista, i fan hanno fatto il coro e l’altro designer ha semplicemente lasciato perdere perché era evidente che non si andasse da nessuna parte.
Perché ho fatto questo esempio? Perché ritengo che fattori come il successo e la popolarità incidano negativamente su determinate figure di esperto e che contribuiscano a farle diventare quegli esperti dal giudizio veloce e sentenzioso — “Se non è perfetto fa schifo”, appunto — che mettono a disagio Fabrizio Rinaldi e me, e chi la pensa come noi. Speriamo che l’umiltà torni a trovarci prima o poi.
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