È primavera, si torna a cinguettar

Mele e appunti

Stavo controllando gli archivi del mio blog, e ho notato che è passato poco più di un anno da quando ho aperto un account in Twitter. Direi che il tempo trascorso è sufficiente per fare qualche riflessione sparsa in proposito.

Semplicità ingannevole

Comincio dalla fine: ho ripreso e ‘ritrovato’ Twitter tre settimane fa, dopo un lungo periodo di progressione inerziale e incerta. Sì perché, con il senno di poi, posso dire di aver trovato una dimensione mia all’interno di Twitter dopo almeno due fraintendimenti. Il primo fraintendimento avvenne prima ancora di aprire un account, quando stavo osservando Twitter dall’esterno in un momento in cui questo ‘aggeggio di microblogging’ era praticamente sulla bocca di tutti. Vedevo un sacco di gente (anche persone che seguo sul Web e che stimo molto) cimentarsi nella scrittura di questi micro-aggiornamenti in Twitter, spesso parlando di cose assolutamente mondane e irrilevanti, e non capivo dove tutto ciò andasse a parare. La mia prima reazione, forse pregiudiziale ma direi comune a molti quando approcciano Twitter la prima volta, era di divertito scetticismo. “Tu guarda questo branco di geek che non hanno niente di meglio da fare che scrivere stupidaggini”. Andavo alla pagina principale di Twitter e di fronte a quell’irritante What are you doing? [Che cosa stai facendo?] — che dovrebbe essere l’interrogativo fondamentale che spinge l’utente di Twitter a scrivere il suo messaggino di 140 caratteri — rispondevo fra me Ma chi se ne strafrega! Ero genuinamente allibito dal successo di Twitter.

Come scrivevo nel post di un annetto fa, decisi di entrare in Twitter spinto soprattutto da necessità personali contingenti. Andavo in Italia lasciando la moglie a casa, e volevo sfruttare un mezzo ulteriore per tenermi in contatto con lei. Al mio rientro ho provato a continuare a usare Twitter, aggiungendo contatti e seguendo persone valide (sviluppatori Mac, opinionisti tecnologici, contatti sviluppati attraverso il Web, ecc.), e pian piano si è creata una situazione che ha portato al secondo fraintendimento: affidarsi a Twitter per entrare in contatto diretto con nuove persone (più o meno conosciute), per scambiare vedute in forma paritaria e democratica. Insomma, mi aspettavo una certa interazione che non ho trovato. In alcuni casi, isolati ma per me importanti, ho trovato anche un certo livello di maleducazione: messaggi inviati ad alcuni sviluppatori o blogger con un certo seguito, con commenti anche di ordine tecnico, venivano ignorati o quantomeno non ricevevo nemmeno un segnale di risposta. Probabilmente perché per loro io ero e sono un signor nessuno fra le centinaia o migliaia di follower del loro account. Uno è liberissimo di rispondere a chi vuole, per carità, non voglio certo fare la figura dell’aspirante primadonna ferita nell’orgoglio, ma trovo che in certi casi, specialmente quando un commento è specifico e non un generico “Anche a me succede così” o un “Bravo, bello l’articolo sull’iPhone che hai scritto ieri”, ecc., uno dovrebbe per lo meno rispondere, a prescindere dal fatto che la persona che ha inviato il commento sia un amico, uno dello stesso giro, o un estraneo. Per me è educazione.

Sta di fatto che questa mancata interazione e questo social networking che sociale non è, dopo una prima delusione che mi portò quasi ad abbandonare Twitter, pian piano mi ha fatto capire di aver frainteso Twitter per la seconda volta.

Il fatto è che Twitter è un foglio bianco. Twitter si presenta con una veste mostruosamente semplice e, a parte il limite dei 140 caratteri per messaggio (che è un limite apparente), non esistono paletti o linee guida — ognuno fa di Twitter quel che vuole, per questo parlo di semplicità ingannevole. Usare Twitter è banale. Trovarne un uso è meno banale di quel che sembra.

Trovare una propria dimensione, procedendo per errori

Un altro problema di Twitter è la sua mancanza di definizione. Per questo, a mio avviso, è fuorviante accostarsi a Twitter usando la categoria dell’utilità. Chiedersi se è utile o no ha poco senso. Un foglio bianco è utile o inutile? È lì, lo si può usare o no. Ci si può scrivere una poesia, o disegnare scarabocchi, o farne un aereo e passare il tempo, eccetera. L’utilità è generata dal soggetto agente, non è un attributo dell’oggetto. Twitter sfugge anche alla coppia di categorie ‘mezzo’ e ‘fine’, in quanto, dal campione ristretto di persone che seguo (e da qualcuno dei loro contatti), posso dire che per molti Twitter è un mezzo, per alcuni un fine.

Secondo la mia esperienza, e assumendo che uno sia interessato a Twitter, procedere per errori è quasi inevitabile. Si entra in Twitter, si aggiungono dei contatti e si comincia a leggere quel che scrivono; si prova a imitare qualcuno, o semplicemente a scrivere quel che si sta facendo o un pensierino che passa per la testa. Prestissimo si viene assaliti da una leggera, poi sempre più penetrante, sensazione di smarrimento. Un grande EMBÈ? ci piove sulla testa mentre viene davvero spontaneo farci la domanda che Twitter stesso propone: Che caspita sto facendo? Ci si sente un po’ sciocchi e ci si domanda se per caso non stiamo perdendo tempo.

Quando si arriva a questo punto, ci si sta scontrando con il primo ostacolo di Twitter, e forse il più critico. Un ostacolo generato dalla semplicità ingannevole di cui parlavo prima: la mancanza di feedback. Ci si aspetta, inconsciamente, una ‘risposta’ dall’oggetto Twitter. Una sorta di segnale che dia un senso alla relazione iniziata con il medium, che sia di stimolo per continuare a utilizzare Twitter. Servizi di social bookmarking come Delicious, una volta afferrati lo scopo e i vari meccanismi di utilizzo (e non ci vuole molto), danno molto presto questa ‘risposta’ all’utente, che comprende il senso dell’operazione di condivisione dei propri bookmark e l’utilità del servizio, e questo lo spinge a un uso continuativo del servizio. Ma Twitter non ha uno scopo, né una direzione precisa, e questo priva gli utenti della prima ora di quelle ‘micro-ricompense’ psicologiche che in altri ambiti stimolano l’interesse e invitano a proseguire.

In Twitter, a mio parere, ‘la risposta è dentro di noi’ (e magari a volte è sbagliata). Oltre a trovare una propria voce e a esprimere un proprio stile, come altri consigliano, credo sia importante trovare una propria dimensione, un proprio modo di relazionarsi all’oggetto, dei propri usi e costumi. Io credo di aver trovato un ‘modo mio’ in Twitter, dopo averci sbattuto la testa un paio di volte, e la chiave è superare l’ostacolo del feedback assente.

Io e Twitter

Questo articolo è ispirato a un recentissimo scambio di email con il buon Brando, il quale, come me, ha deciso di dare un’altra possibilità a Twitter e vedere come va. A lui scrivevo del mio momento-eureka che mi ha fatto ripescare Twitter e riportarlo in primo piano agli inizi di marzo. All’epoca ho semplificato la mia mezza illuminazione in un tweet ironico: Il Segreto di Twitter: mai aspettarsi un’interazione. Non è forse così che funziona il social networking? Direi più estesamente: mai aspettarsi un feedback. E tutto quel che viene, ben venga. Insomma, un approccio orientaleggiante, se vogliamo.

Mi sono trovato meglio in Twitter quando ho smesso di preoccuparmi di chi iniziava o smetteva di seguirmi, quando ho smesso di far caso ai casi di maleducazione di cui sopra, quando — paradossalmente forse — ho smesso di far caso agli altri in generale. In lettura, seguo il flusso di messaggi generato dai contatti che seguo, lo faccio quando posso e quando il carico di lavoro lo permette. Quando non posso, non me ne preoccupo affatto, la vita continua anche e soprattutto fuori dal Web. Se ho voglia di andare a vedere quel che una certa persona ha scritto, seleziono il suo nome utente e leggo i suoi aggiornamenti. Se penso che in mia assenza qualcuno possa aver risposto a uno dei miei tweet, controllo le @risposte. E così via. Seguo chi seguo perché di tanto in tanto scappa una riflessione intelligente e stimolante che val la pena appuntarsi, oppure qualcuno pubblica link a programmi o articoli utili e interessanti. Seguo gli account ‘aziendali’ di certi produttori/sviluppatori di software e servizi perché è altamente probabile che pubblicheranno avvisi di aggiornamenti o novità dei loro prodotti prima in Twitter che altrove. Se un utente chiacchiera troppo o spamma con link su link, smetto di seguirlo (sorry, Guy Kawasaki). Nulla di personale — altro paradosso del social networking.

In scrittura, come dicevo a Brando in un’email, Twitter per me può essere a volte una micro-pausa, o quei venti secondi per sfogarmi perché magari qualcosa durante il lavoro mi sta facendo perdere la pazienza o perché mi capita di notare qualche sciocchezza qua e là per la rete e mi va di buttare in Twitter un commento ironico o irritato. Poi naturalmente ci può essere una qualche osservazione en passant che non merita un intero articolo sul mio blog, o la segnalazione di qualche sito interessante, e così via. Il tutto con il massimo senso di non-attaccamento — Twitter è il trionfo del mo(vi)mento millimetrico del presente.

La scelta di scrivere in inglese è semplicemente dettata dal fatto che la maggioranza delle persone che mi legge e/o con cui potenzialmente interagisco parla inglese. Sempre in inglese è un esperimento letterario, Crosslines, che prima era nato come blog e poi, dopo essere stato nel congelatore una buona manciata di mesi, ho pensato di farlo ripartire utilizzando come medium il ‘foglio bianco’ di Twitter. È un esperimento che ho definito di webfiction interattiva, in quanto, sinteticamente, l’idea della narrazione si basa sulle avventure testuali, che nel tempo si sono sempre più trasformate in vere e proprie opere narrative interattive. Come in quelle avventure, anche in Crosslines vi è un io narrante che tende a seguire la sua strada, ma il lettore (specie nel formato Twitter) è libero di interagire con lui, e dai suggerimenti, dalle domande, dalle interazioni, la storia può arricchirsi o prendere direzioni anche inaspettate. Sono curioso di vedere come procederà il tutto.

Gli strumenti

Dal punto di vista ‘tecnico’, dopo aver provato vari client Twitter per Mac OS X, per ora rimango con questa configurazione: Twitterrific in lettura sul monitor del Cube, che si trova alla sinistra del mio monitor principale, e l’interfaccia Web di Twitter in scrittura. I client Twitter provati (Twitterrific compreso) sono tutti interessanti dal punto di vista dell’interfaccia, e hanno funzioni anche carine, ma trovo che a tutti, curiosamente, manca un dettaglio che per me è molto pratico per la scrittura dei tweet: un campo di testo con caratteri più grandi, e soprattutto in cima alla serie di tweet dei contatti che seguo. Proprio com’è fatta l’interfaccia Web di Twitter. Negli altri client desktop (almeno per Mac OS X), la casella di testo per scrivere i messaggi è in basso, è piuttosto piccola e il font ha la stessa dimensione di quello usato per visualizzare i messaggi altrui. (Penso soprattutto a Twitterrific, che è l’esempio che ho davanti). Con monitor piuttosto grandi, e con l’interfaccia del client che arriva poco sopra del Dock, scrivere in quella casella è scomodo; per attivarla occorre fare clic dentro di essa e a volte mi capita di attivare per sbaglio qualche applicazione nel Dock. Per non parlare del fatto che se il messaggio è più lungo di una riga, quando il cursore va a capo la prima riga sparisce. La situazione è molto migliore in qualsiasi client Twitter per iPhone. Mi meraviglia che non prendano esempio.

Sono piccolezze, eh. Del resto i dettagli delle interfacce grafiche sono di grande interesse per me, e mi andava di menzionare questi particolari visto che già stavo trattando il tema Twitter.

Concludendo

In generale penso comunque che Twitter sia un fenomeno sopravvalutato. Leggendo analisi altrui, e mettendole a confronto con certe dinamiche di Twitter, a volte noto elementi di contraddittorio. Chi dice che in Twitter importa ciò che scrivi e il tuo stile, e non chi sei, poi mi deve spiegare il fenomeno delle celebrità che hanno deciso di usare Twitter, o di personaggi comunque noti che hanno seguiti di decine di migliaia di persone. Ad altri che scrivono che Twitter è un passaggio chiave verso la comunicazione del futuro (mannaggia ho perso il link di quell’articolo), io reagisco con un po’ di timore e mi auguro davvero che non arriveremo a esprimerci per pillole di 140 caratteri per un’audience che ha il livello di attenzione e la memoria di un moscerino. Se Twitter sparisse domani, non ne sentirei la mancanza. Ognuno, come dicevo, si trova la propria dimensione e le proprie abitudini. Io ho optato per un approccio più distaccato, che è quel che mi viene spontaneo consigliare a chi mi chiede espressamente un suggerimento o un’indicazione. Alla fine è tutto un passatempo.

The Author

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