L'indefinibile indefinito

Mele e appunti

FT.com / Technology — Apple joins forces with record labels: Sono due giorni che rimugino su questo articolo del Financial Times, che trovo semplicemente irritante, per motivi che non riesco bene a inquadrare. Sarà quell’ineffabile odore di aria fritta, quella maniera un po’ così che hanno quelli che danno non-notizie, quell’indefinibile contributo alla macchina dell’hype, del sensazionalismo, che gira gira e gira a vuoto. Non so. Propongo la traduzione con commento incorporato.

Titolo: Apple si unisce alle case discografiche. Generico, quasi innocuo, così come innocuo pare il primo paragrafo:

Apple sta lavorando con le quattro maggiori case discografiche per stimolare le vendite digitali di album integrando con il download di musica un libretto interattivo, con note di copertina e altre funzioni interattive, in una mossa che, si augura, possa cambiare le tendenze d’acquisto nel suo iTunes Store online.

Va beh, idea carina che non sarebbe male vedere implementata. Personalmente mi manca moltissimo non poter sfogliare il bel libretto di un CD, con informazioni sui musicisti che hanno contribuito a un album, sul produttore (che spesso dà un’impronta distintiva al disco, al suono di un gruppo, agli arrangiamenti), e magari con i testi dei brani. Come ovviamente mi manca il potermi perdere nelle grandi dimensioni di un album in vinile, che si apre e offre illustrazioni e foto di qualità che contribuiscono senza dubbio a creare quel quid, quell’ingrediente visuale e suggestivo che nel migliore dei casi riesce a fondersi con gli stimoli sonori di un disco e ne viene fuori un’immagine memorabile. Penso ai Pink Floyd, ma anche a Yes, ai Tindersticks, a Tom Waits, ai Jethro Tull, o anche a dischi come Physical Graffiti e The Song Remains The Same dei Led Zeppelin.

Ma sto divagando. Giusto quando arriva la bomba al secondo paragrafo:

Queste trattative avvengono mentre Apple è al tempo stesso impegnata nella corsa per offrire un computer portatile, completo e dalle dimensioni di un tablet, in tempo per la stagione natalizia, periodo nel quale l’industria dell’intrattenimento spera abbia luogo una nuova rivoluzione. Il dispositivo potrebbe essere lanciato in concomitanza con i nuovi accordi sui contenuti multimediali, compresi quelli mirati a stimolare le vendite di prodotti musicali della lunghezza di un CD, secondo quanto riportano persone a cui è stato spiegato il progetto.

Bum! Ecco in poche righe la pozione di Panoramix. Mi pare che l’articolo stesse parlando di musica, ma no! Beccatevi la bastonata sul fianco. Il tablet spunta nuovamente, come il babau appena si apre la scatola. Notare come il Financial Times dia per certa la notizia che Apple sta per lanciare un dispositivo tablet. Poi, forse magari perché no, potrebbe persino lanciare questo prodotto di cui non si sa nulla insieme a un nuovo servizio che dovrebbe essere il risultato di fantomatici accordi per stimolare ulteriormente la vendita di musica sull’iTunes Store, che, poverino, ormai langue. E notare come finisce il paragrafo: la notizia sarebbe corroborata da quanto riportano misteriose figure a cui è stato fatto il briefing in tutta segretezza, ma evidentemente hanno cantato, e però rimangono avvolte nell’anonimato. Se da un lato può anche essere uno scenario plausibile (a volte le fonti dietro a una notizia manifestano la volontà di rimanere anonime per non compromettere una situazione delicata dietro le quinte), faccio notare che questa, nel presente articolo, è solo la prima di tante espressioni ricorrenti, che si aggiungono una dopo l’altra a creare un ‘effetto nebulosa’ che ci vogliono gli antinebbia accesi per continuare a leggere.

Le vendite di album come oggetti fisici sono calate drasticamente con l’evolversi del sistema di vendita e acquisto: dagli album su CD nei negozi veri e propri, ai download digitali forniti da negozi online.

Anche se i consumatori continuano a comprare una grande quantità di musica digitale, i loro acquisti favoriscono i brani singoli più che interi album, che frutterebbero margini maggiori. 

Quindi, da quel che l’articolo ha detto fin qua, sembrerebbe che l’idea sia di vendere download in formato ‘long playing’ per rifocalizzare l’acquirente sul formato-album più che il formato-canzone singola. Dopo aver sparato la bomba sul tablet, quindi, si torna a parlare di musica.

Apple sta lavorando con EMI, Sony Music, Warner Music e Universal Music Group su un progetto dal nome in codice ‘Cocktail’, secondo quattro persone a conoscenza della situazione.

Anche qui, a corroborare i fatti sarebbe la testimonianza di altre quattro figure misteriose. Forse hanno specificato il numero per far sembrare la cosa un po’ meno vaga. O sono i cavalieri dell’apocalisse? O, meglio, i quattro evangelisti Apple? Chissà. Bisogna avere fede. Progetto ‘Cocktail’ è sicuramente indicativo del tasso alcolico di qualcuno, in ogni caso.

Le case discografiche insieme ad Apple stanno lavorando per stabilire una data di lancio del progetto a settembre, progetto che mira a stimolare l’interesse negli album interi, includendo note di copertina e filmati insieme alla musica.

Lo scopo è ricreare l’epoca d’oro degli album, quando ci si sedeva con gli amici ad ammirarne le illustrazioni e il lavoro artistico mentre si ascoltava la musica”, ha detto un dirigente a conoscenza dei piani.

E tre: prima si menziona un misterioso gruppo di persone a cui è stato spiegato il progetto, poi ci sono altre quattro figure mistiche a conoscenza della situazione, adesso salta fuori un dirigente (ma chi? Ma ditemi almeno di che azienda, no?). Il numero di persone che ne sanno aumenta a ogni riga, tanto che comincio a sospettare che l’unico a non saperne nulla ormai sono solo io.

Apple vuole rendere più appetibile l’acquisto di prodotti più completi [che non i singoli brani], creando un nuovo tipo di materiale interattivo a costituire gli album, che comprenda foto, testi e note di copertina che permettano agli utenti di fare clic sugli elementi che trovano più interessanti. I consumatori sarebbero in grado di riprodurre i brani direttamente dal libretto interattivo senza dover rientrare in iTunes, hanno detto i dirigenti.

Senza dubbio interessante, ma ancora saltano fuori dei misteriosi dirigenti.

Non si tratta solo di quattro PDF messi insieme”, ha detto un dirigente, “C’è davvero un’interconnessione nei materiali extra”.

Ecco un altro dirigente!

Le compagnie musicali non hanno rilasciato commenti.

Ma come?! Stando all’articolo, decine e decine di persone sanno un sacco di cose e sembrano smaniose di vuotarlo, il sacco, e sul più bello nessuno commenta?

[…] Il nuovo dispositivo sensibile al tocco a cui sta lavorando Apple avrà uno schermo che potrebbe essere grande fino a 10 pollici. Si collegherà a Internet come iPod touch, probabilmente senza le funzioni di telefono, ma con accesso agli store online di Apple.

Apple azzarda di riuscire là dove altri hanno fallito, Microsoft compresa, che ha costantemente spinto una versione tablet del suo sistema operativo Windows, come progetto favorito del fondatore Bill Gates.

L’industria dell’intrattenimento spera che Apple, che ha già rivoluzionato i mercati dei lettori musicali e dei telefoni, possa fare altrettanto con il nuovo dispositivo.

Sarà meraviglioso per vedere i film”, ha detto un dirigente del settore dell’intrattenimento.

Gli editori librari sono in trattative con Apple e sono ottimisti sul fatto che i loro servizi vengano offerti con il nuovo computer, che potrebbe rivelarsi un’alternativa al Kindle di Amazon. 

Che dire, un finale concitato e ugualmente ricco di bombe. Dopo la musica, questo favoloso dispositivo farà felice l’industria cinematografica e anche quella libraria, in un colpo solo. Non ci credete? Lo ha detto un altro dirigente senza nome, dev’essere vero. E poi: forse non avrà funzioni di telefono? Ma come, e io che credevo fosse così comodo telefonare con un dispositivo dallo schermo ‘grande fino a 10 pollici’! Meno male che almeno si collegherà agli store online di Apple, pensate se Apple avesse fatto la sciocchezza di non permettere al tablet di collegarsi all’iTunes Store.

Questo articolo è un pezzo portentoso, se almeno si potesse fumarlo. C’è tutto: i ‘potrebbe’ e i ‘magari’ mischiati con le pseudo-certezze, l’alone di credibilità dovuto ai riferimenti con ‘persone che sanno e parlano sottovoce’, in una squisita atmosfera settecentesca da intrigo di palazzo, con misteriosi dirigenti e sette di iniziati che nascondono mezzo volto dietro a ventagli preziosamente lavorati. Ci sono i ‘tasti giusti’, ossia l’allusione al mitico tablet ma con toni di urgenza e di imminenza, come se dietro il sipario tutto fosse cosa fatta e stanno solo aspettando di presentarla.

Per carità, magari tutte le fonti citate-non-citate hanno parlato davvero nell’orecchio di qualcuno e vogliono l’anonimato, e tutto quel che si dice nell’articolo è vero e accadrà pure nel giro di pochi mesi. Quello che critico nell’articolo del Financial Times è la maniera di buttar lì la notizia, se di notizia si tratta. A me sembra un po’ una serie di forzature dietro all’idea — questa sì plausibile — che Apple voglia riformare il modo di vendere musica su iTunes Store, offrendo un pacchetto digitale più ricco. Il resto è un mosaico, un patchwork di voci di corridoio messe insieme per creare un rumour più completo e poliedrico. La pozione di Panoramix di cui parlavo prima: mettici l’idea dei contenuti digitali musicali interattivi, mettici un pizzico di tablet, una spruzzata di editoria ed eBook, ed ecco la magia.

Fra l’altro, per chi non lo sapesse, Apple sta lavorando a un tablet dalla metà degli anni Novanta. E come già detto, il problema non è costruirlo. A Cupertino esistono certamente centinaia di prototipi, da abbozzi in plastica, a dispositivi realmente funzionanti. Il problema è come piazzarlo. E dopo l’uscita e il successo di iPhone e iPod touch, il problema del piazzamento è ancora maggiore. Un fratello maggiore di iPod touch deve avere almeno una importante caratteristica / funzionalità intrinseca che lo differenzi da iPod touch, qualcosa che abbia senso (per il consumatore in primis) fare con quel dispositivo e non con un iPod touch. Qualcosa che spinga il consumatore, nella valutazione in fase di acquisto, a sacrificare l’innegabile tascabilità del touch a favore del tablet. L’ipotesi dell’articolo sembra orientarsi verso la nuova offerta multimediale dell’iTunes Store, il progetto ‘Cocktail’ menzionato sopra, e fors’anche l’idea di un nuovo Kindle marchiato Apple. Mi sembra pochino: sono cose che potrebbe fare benissimo un iPod touch / iPhone. Io credo che una funzionalità che possa far risaltare il tablet rispetto alla piattaforma iPod touch / iPhone sia la possibilità di fare serie operazioni di creazione ed editing di documenti, cosa poco fattibile con i piccoli schermi di iPhone e iPod touch. Sarebbe una caratteristica che spingerebbe l’utente in cerca di qualcosa con funzioni di netbook a optare per il tablet di Apple, uno strumento con il design e l’appetibilità della piattaforma Touch, ma più capace ed esteso nelle funzionalità, al punto da diventare il subnotebook del XXI secolo. Con un punto di partenza così, ogni funzionalità aggiunta è grasso che cola.

Chiudo con un frammento di John Gruber sull’argomento:

[…] Ma in realtà Scalisi ha commesso un solo errore. Il suo elenco di problemi di design e di marketing che deve affrontare qualsiasi computer ‘tablet’ è accurato. Il suo errore è quello di assumere che Apple introduca un tablet senza aver prima risolto proprio quei problemi. Come si digita su un tablet? Come lo si trasporta? Come proteggere lo schermo dai graffi? Se ci si deve guardare del video, come deve reggersi il tablet? Se si possiede già un iPhone e un MacBook, a cosa servirebbe un dispositivo del genere?

Non ho idea di quali siano le risposte a queste domande. Ma state certi che se Il Tablet è davvero imminente, Apple ha trovato quelle risposte. Il tablet è come iPhone prima che venisse rivelato. Le congetture e i rumour che Apple avrebbe introdotto un cellulare erano pazzeschi e di ogni tipo, ma nessuno ebbe una vaga idea di quale sarebbe stato veramente il suo aspetto. 

Il rigato non è sempre elegante

Mele e appunti

Si è parlato più volte del dibattito, fra utenti Mac, sugli schermi dei portatili Apple attuali. Meglio opachi o lucidi? Beh, consoliamoci, esistono certi utenti PC, in special modo utenti di portatili Hewlett-Packard, per cui il dibattito diventa ‘schermi rigati o no?’. La risposta giusta, in questo caso, è no. Sembra ovvio per tutti, meno per Hewlett-Packard.

Ma andiamo con ordine. Il problema è il seguente: esistono alcune serie di portatili HP da 17 pollici (DVxxxx, ZDxxxx, ZVxxxx, dove ‘xxxx’ sono in genere quattro numeri) che iniziano a presentare — spesso dopo pochi mesi dall’acquisto, ma i tempi variano — righe verticali che attraversano lo schermo. Mia moglie è sfortunatamente una delle vittime di tale inconveniente; sul suo HP Pavillion DV8050EA le righe hanno cominciato a presentarsi giusto nel periodo terminale della garanzia. Prima una, sul lato sinistro-centrale dello schermo. E va beh, noiosa ma sopportabile. Poi in rapida successione un’altra, tre, quattro, otto, quindici… Superate le quaranta righe ormai abbiamo smesso di tenere il conto.

L’idea era quella di arrangiarsi. Il portatile, costato 1.500 Euro nel 2006, è ormai fuori garanzia, e portarlo in un centro HP a farlo riparare semplicemente non conviene. Ci informammo tempo fa e ci ventilarono una spesa intorno ai 500–600 Euro. Su eBay più di un venditore offre schermi nuovi adatti per quel modello di portatile, e il costo si aggira (spedizione compresa) intorno ai 160 Euro. La manodopera ce la metto io, e quindi il tutto farebbe meno male al portafoglio.

Tuttavia, in un attacco di ostinazione, ci siamo messi a investigare in Internet, e abbiamo avuto conferma di un sospetto che avevo sempre avuto, e cioè che il problema è noto e diffuso, che HP dovrebbe farsi carico di ripararlo fuori garanzia senza costi per l’utente, ma che invece non lo fa. Il servizio di attenzione al cliente (uno dei tanti, pare che ne abbiano diversi) è bravissimo a fare lo gnorri, e a un’esposizione chiara e paziente del problema da parte di mia moglie, la risposta ottenuta è stata più o meno Non abbiamo notizie di problemi di questo genere legati a difetti di fabbricazione per questo tipo di macchina. Il suo modello ci appare fuori garanzia. Se vuole può mettersi in contatto con un centro di assistenza… e farsi riparare il portatile a sue spese.

È bastata una ricerca superficiale su Google per scoprire di tutto. Un tizio spagnolo ci ha perfino dedicato un blog, No me rayes el HP (cioè ‘non rigarmi l’HP’). C’è poi un altro utente di lingua inglese che ha aperto un sito, HP Vertical Line, per raccogliere storie di altri utenti con il medesimo problema. Non sono pochi. Una persona (la sua storia è su HP Vertical Line) è riuscita a spuntarla per vie legali, e dopo una serie di tira e molla, HP gli ha regalato un portatile nuovo.

Ne ho lette un bel po’, e l’impressione è proprio la classica partita difettosa di schermi che ha piagato quelle tre serie di portatili Pavillion — sui quali peraltro Internet pullula di tante altre storie di terrore. Schede grafiche che si surriscaldano; batterie difettose; componenti scadenti che, se sostituite in garanzia, vengono cambiate inserendo pezzi di ricambio anche peggiori. Quel che HP avrebbe dovuto fare è un richiamo generale delle serie di computer colpite dal difetto di fabbricazione e sostituire le macchine. Quel che dovrebbe fare HP è riconoscere una buona volta il problema ed effettuare la sostituzione gratuitamente anche fuori garanzia. Tanto per fare confronti, Apple lo ha fatto più volte, in via ufficiale con tanto di pagine dedicate sul sito, e anche in via ufficiosa, attraverso contatti diretti con gli Apple Store.

Mia moglie e io non abbiamo ancora deciso se arrangiarci e ripararci il portatile da soli, o se battagliare con HP per quello che, in linea di principio, sarebbe giusto ottenere, ossia una riparazione gratuita. Il comportamento dell’azienda è vergognoso e l’immagine non è certo più quella del costruttore di stampanti ben fatte e durevoli (la mia LaserJet 4L, comprata nel 1994, funziona ancora) a cui mi ero abituato. Però a sentire certa gente, sotto il cofano i Mac e i PC sono tutti uguali.

La recensione di Engadget dello HTC Hero

Mele e appunti

Come d’abitudine, Engadget presenta una recensione dettagliata e ricca di immagini. Lo HTC Hero è il più recente prodotto della piattaforma Android. La prossima settimana magari tornerò su altri particolari del dispositivo, ma per intanto invito a osservare il video in cui viene mostrata la funzione che migliaia di persone sono così ansiose di vedere implementata su iPhone: la gestione dei contenuti Flash. No, non è colpa della vostra connessione — fa proprio pena di suo. E la prova è stata fatta col dispositivo connesso a una rete Wi-Fi, per cui non ci sono scuse.

Quote: John Mueller

Et Cetera

The notion that the world should rid itself of nuclear weapons has been around for over six decades — during which time they have been just about the only instrument of destruction that hasn’t killed anybody.

John Mueller

Brevemente, sul cloud computing

Mele e appunti

Giacomo, in un recente commento, chiedeva:

Perché non vi interessa il cloud computing? È un motivo di principio – del tipo che non vi piace avere i vostri dati fuori dal vostro controllo ed eventualmente senza la completa sicurezza che restino privati? Oppure è un discorso più collegato al fatto che attualmente il cloud computing (a causa di numerosi motivi) non è ancora “pronto” per l’interesse delle grandi masse?

Per quanto mi riguarda, direi entrambe le cose, con l’accento forse più sulla prima. Fra l’altro su questo argomento si è recentemente pronunciato Bruce Schneier, noto guru della sicurezza informatica, a cui lascio la parola:

[…] Ma pubblicità e sensazionalismi a parte, il cloud computing non è nulla di nuovo. È la versione moderna del modello del timesharing che si usava negli anni Sessanta, che alla fine fu abbandonato a causa del crescente successo del personal computer. Cloud computing è quel che hanno fatto Hotmail e Gmail in questi anni, ed è quel che fanno i siti di social networking, le aziende che offrono backup remoti, e le aziende di filtraggio della posta elettronica da remoto, come MessageLabs. Qualunque genere di outsourcing IT — infrastruttura di rete, monitoring di sicurezza, hosting remoto — è una forma di cloud computing. […]

E la sicurezza? Non è più pericoloso avere le proprie email sui server di Hotmail, i propri fogli di calcolo sui server di Google, le conversazioni personali sui server di Facebook e le previsioni di vendita della propria azienda sui server di Salesforce.com? Beh, sì e no.

La sicurezza IT ruota intorno alla fiducia. Occorre fidarsi di chi costruisce i microprocessori, dell’hardware, del sistema operativo, dei produttori di software, nonché del proprio Internet Provider. Uno qualsiasi di questi elementi può compromettere la nostra sicurezza: mandare in crash i sistemi, corrompere dati, permettere a un aggressore di ottenere accesso ai sistemi. Abbiamo speso decenni combattendo worm e rootkit che prendono di mira vulnerabilità nel software. Ci siamo preoccupati di chip infettati. Ma alla fine non abbiamo altra scelta se non quella di fidarci ciecamente della sicurezza dei fornitori IT di cui ci serviamo.

Il Saas (Software as a service) sposta il confine della fiducia a un livello ulteriore: adesso dobbiamo fidarci anche dei fornitori di questi servizi software, ma le cose non cambiano granché. È l’ennesima entità di cui ci si deve fidare.

Tuttavia esiste una differenza fondamentale. Quando un computer si trova all’interno della nostra rete, possiamo proteggerlo con altri sistemi di sicurezza, come firewall e IDS (sistemi anti-intrusione). È possibile costruire un sistema resistente che funziona anche nel caso in cui quei produttori di cui ci dobbiamo fidare non si rivelano così degni di fiducia. Con un modello di outsourcing, che si tratti di cloud computing o di altro, non è possibile. È necessario fidarsi totalmente del proprio outsourcer. E non solo bisogna fidarsi della sicurezza dell’outsourcer, ma anche della sua affidabilità, disponibilità, e continuità di business.

Non vogliamo che i nostri dati più importanti si trovino su qualche cloud computer che sparisce improvvisamente perché il proprietario è andato in bancarotta. Non vogliamo che l’azienda che stiamo utilizzando venga venduta al nostro diretto concorrente. Non vogliamo che l’azienda effettui dei tagli senza preavviso perché i tempi sono duri. O aumentare i suoi prezzi per poi rifiutarsi di restituire i nostri dati. Queste cose possono accadere con i produttori di software, ma i risultati non sono così drastici.

Esistono due tipi diversi di clienti del cloud computing. Il primo tipo paga solo una cifra simbolica per tali servizi, li usa gratuitamente e in cambio riceve pubblicità (esempi: Gmail, Facebook). Questo genere di clienti non ha alcuna voce in capitolo nei confronti dell’outsourcer. Si possono perdere tutte le informazioni — ad aziende come Google o Amazon importerà poco. Il secondo tipo di clientela paga una cifra considerevole per questi servizi: a Salesforce.com, MessageLabs, aziende di managed networking, e così via. Questa clientela ha maggior voce in capitolo, nel caso ovviamente che tali aziende scrivano correttamente i loro contratti di servizio. In ogni caso nulla viene garantito. […]

L’enfasi nell’estratto citato è mia, non di Schneier. Ho evidenziato in grassetto quelli che per me sono i punti essenziali, che non mi rendono completamente tranquillo quando si parla di cloud computing. Se vogliamo, sono più l’integrità e la ricuperabilità dei dati a preoccuparmi, che non la privacy in senso stretto. Certo, quando ci si serve del cloud computing in maniera sostanzialmente marginale, la privacy è un problema relativo: se non voglio che Google legga la mia posta o i documenti che creo su Google Docs, eviterò di usare Gmail e lavorerò in locale ai miei progetti e documenti da tener privati e segreti. Se ipoteticamente Google Chrome OS fosse, come ho immaginato nell’altro post, interamente basato sulla ‘nuvola’ forse le ripercussioni a livello di privacy sarebbero più notevoli.

Però, ripeto, quelli che considero i fattori critici sono la sicurezza dei dati e l’affidabilità delle entità che li gestiscono. Le preoccupazioni inerenti alla privacy non stanno tanto nella paura che qualcuno in Apple legga la mia corrispondenza MobileMe o che qualcuno in Google legga i miei carteggi privati in Gmail. Usando il buonsenso, è altamente improbabile che questo accada, se non altro perché gli account di posta MobileMe e Gmail sono ormai nell’ordine dei milioni (la praticità di Gmail invita ad aprire account multipli, e io stesso ne ho una dozzina; facendo qualche moltiplicazione si possono immaginare i numeri a livello globale). Ma la privacy diventa un problema se viene compromessa la sicurezza dei dati: a nessuno farebbe piacere veder comparire stralci di email private facendo una ricerca qualsiasi in Google, per esempio. (Se non ricordo male, in passato era accaduta una cosa analoga in Flickr, dove per un errore del sistema una serie di foto contrassegnate come ‘private’ dai rispettivi utenti, erano state rese visibili a tutti).

Tornando alla domanda di Giacomo, penso che il cloud computing sia senza dubbio pronto per l’interesse delle grandi masse, le quali probabilmente già ne fanno uso senza rendersi conto appieno delle implicazioni. I dettagli che, per come la vedo io, renderebbero il cloud computing davvero maturo sarebbero una maggiore trasparenza e un minimo di garanzie offerte dal gestore di un servizio. Visto l’andazzo e leggendo i vari Termini del Servizio, però, temo che l’approccio sarà sempre del tipo “Questo è ciò che offriamo, senza garanzie. Se vi va bene, ottimo. Altrimenti rivolgetevi altrove”.

Come già dicevo nei commenti al mio articolo su Google Chrome OS, trovo senz’altro affascinante l’idea di esternalizzare informazioni e di averle sempre sottomano da qualsiasi macchina mi colleghi, e servizi come Dropbox mi hanno salvato il posteriore in un paio di occasioni. Ritengo improbabile che grandi aziende come Apple e Google facciano passi falsi dal punto di vista della sicurezza dei dati, se non altro perché sarebbe un danno incalcolabile alla loro immagine e non possono permettersi che accada una cosa del genere. Ma nel frattempo continuo a tenere una copia di tutto sui miei Mac e nei miei backup.