Ufficio complicazioni affari semplici (2)

Mele e appunti

Seguito del post di ieri, ecco come è finita la vicenda. Una volta introdotto il codice per scaricare legalmente la copia digitale de Il Cavaliere Oscuro, sono partiti due download. La finestra di dialogo mi informava che il download più grande (un file da 2,1 GB) era destinato per la visione su PC, avendo una maggiore qualità e definizione; mentre il file video più piccolo (da 625 MB) era destinato alla visione su dispositivi portatili.

Bene, ultimati gli scaricamenti, ecco accadere quel che immaginavo. Si tratta di due file WMV protetti da PlayForSure, che possono essere visti soltanto sul PC su cui sono stati scaricati. Ogni volta che si fa doppio clic su uno di essi, si apre Windows Media Player con una finestra in cui chiede l’introduzione del codice. Copiando i file sull’altro PC di Carmen e inserendo il codice, appare un avviso che dice sostanzialmente che ‘si è raggiunta la quota massima di licenze’, e propone di uscire da Windows Media Player come unica opzione.

Ora, passi questo comportamento per il file ad alta qualità da vedere sul PC. Ma che senso ha riservare lo stesso trattamento anche per il file a bassa qualità ‘destinato alla visione su dispositivi portatili’? Come si fa a vedere il film su un dispositivo portatile se la visione del filmato non parte perché è stato copiato altrove e non si trova sul PC originale? Che senso ha far scaricare due versioni che, allo stato delle cose, posso soltanto vedere su un computer?

Ma sì, una spiegazione può essere che viene data la possibilità di scaricare due file di diverse dimensioni e qualità per poi riprodurre quello più adatto alla potenza del PC. Per cui se uno ha un netbook o un Pentium-baracchino aprirà il file più piccolo. Però potrebbero fornire una maggiore flessibilità nelle scelte iniziali, e offrire la possibilità di vederlo almeno su un’altra macchina. Basterebbe utilizzare un sistema di autorizzazione dei computer come fa iTunes.

Alla fine risulta più pratico guardarsi il film in DVD o in Blu-Ray…

Ufficio complicazioni affari semplici

Mele e appunti

[Nota: Il titolo originario del post era Un promemoria del perché odio il mondo Windows e il DRM. Mi è stato fatto notare nei commenti che potrebbe essere leggermente fuorviante e, ragionandoci a mente fredda, tendo a essere d’accordo; di qui il nuovo titolo, più neutrale se vogliamo.]

Da archiviare in: Quelle piccole cose che dànno ai nervi.

Una collega di Carmen ci regala il foglietto inserito nella scatola deluxe de Il Cavaliere Oscuro, su cui è stampato un codice per poter scaricare una copia digitale del film da Internet, legalmente. Il foglietto dice essenzialmente: 1) vai sul sito Taldeitali, 2) inserisci il seguente codice, 3) segui le istruzioni a video.

Ora, nella mia forma mentis di utente Mac e di persona pratica, mi immagino lo scenario che segue: vado sul sito indicato, troverò un modulo da compilare, il codice verrà convalidato e verrò dirottato a una pagina Web protetta con un cookie di sessione e potrò scaricare il file video. Se il mondo fosse governato da questa mentalità forse staremmo tutti meglio. Fra l’altro, piani di dominazione del mondo a parte, la procedura che ho immaginato non è tanto dissimile da quella che seguii qualche mese fa quando scaricai legalmente la copia digitale (file MP3) di un vinile di Tom Waits che avevo acquistato.

Invece no. Vado sul sito indicato con Safari ed esce un avviso in inglese che, tradotto, recita: Siamo spiacenti, ma soltanto la piattaforma Windows (Windows XP e versioni superiori) è supportata in questo momento. Sbuffo, accendo il PC portatile di Carmen, apro Chrome e torno sul sito.

Invece del modulo da compilare, devo scaricare un’applicazione.

Sbuffo. Scarico l’applicazione.

Avviata l’applicazione (che ha il logo WB della Warner Brothers), un avviso mi informa che è necessario prima aggiornare Windows Media Player alla versione 11.

Sbuffo. Premo il pulsante per iniziare l’aggiornamento.

Scaricato l’aggiornamento e avviato, mi chiede di confermare il processo di convalida dell’installazione di Windows XP sul PC.

Sbuffo. Confermo. Si installa l’aggiornamento.

Passano dieci minuti.

Finito il processo, mi si dice di riavviare il PC, ché è meglio.

Sbuffo. Riavvio. Riavvio l’applicazione.

Un altro avviso mi informa che è necessario aggiornare i componenti di sicurezza di Windows Media Player per riprodurre file protetti sul computer.

Sbuffo. Premo il pulsante per iniziare l’aggiornamento.

La voglia di spegnere e mandare il tutto dove potete immaginare si fa sempre più forte.

L’aggiornamento ci mette molto poco. Sono quasi incredulo.

Finalmente mi viene chiesto il codice. Lo inserisco, e finalmente inizia il processo di scaricamento.

Sono curioso di vedere che tipo di file verrà scaricato e se sarà possibile almeno riprodurlo sull’altro PC di Carmen che ha uno schermo migliore. Ma a questo punto non ho grandi aspettative.

Piccola riflessione a margine: il tempo passa, ma l’industria dell’intrattenimento continua a non capire che non è così che si combatte la pirateria. È anche nel rendere veloce e amichevole il processo di ottenimento di copie digitali legali che si fa felice il cliente onesto che ha già sborsato 27 Euro per il DVD edizione deluxe. (In questo caso specifico è stato un regalo, ma ci capiamo). Io ci ho perso più di mezz’ora in questo processo, volendo seguirlo in maniera onesta. Ma se avessi voluto barare, sarebbe bastata una ricerca in Google del torrent del file video (ricerca che dura probabilmente 2 secondi), e in meno di cinque minuti avrei già iniziato il processo di scaricamento di un file che, al 99,99% è un archivio .avi apribile in tutti i Mac e PC di casa. È per questo che l’iTunes Store continua a essere un formato vincente: facilità d’uso e di ricerca dei contenuti, reperibilità immediata, acquisto con un clic.

A carte scoperte

Mele e appunti

Traducendo il numero di marzo di Crypto-Gram, la newsletter sulla sicurezza scritta da Bruce Schneier, ho trovato fra le news un link a un articolo interessante.

L’articolo di Wired parla di TrapCall, un nuovo servizio — disponibile però soltanto negli Stati Uniti — che permette di togliere l’anonimato alle telefonate che riceviamo senza numero del chiamante. Con questo servizio è possibile sapere il numero di chi chiama e, in certi casi, anche nome e indirizzo. Dall’articolo:

Il servizio base di ‘smascheramento’ (unmasking) è gratuito, e comprende l’opzione di inserire in una black list i numeri dei chiamanti indesiderati. Permette anche di ascoltare la propria messaggeria vocale attraverso il Web. Al momento è disponibile solo a chi ha sottoscritto un contratto con AT&T e T‑Mobile, e sarà esteso agli altri maggiori provider di telefonia nelle prossime settimane — ha dichiarato Meir Cohen, presidente di TelTech.

Non è un servizio pensato per spie, o nerd; non è stato creato con un target preciso in mente, continua Cohen. Tutti odiano ricevere chiamate anonime o con il numero occultato, e di questi tempi vogliono sapere chi sta chiamando, e vogliono avere la possibilità di scegliere se rispondere o meno.

Il funzionamento del servizio è piuttosto ingegnoso:

I clienti hanno avuto la possibilità di evitare la visualizzazione del proprio numero sin da quanto l’Identificativo di chiamata (Caller ID) fu introdotto nei primi anni Novanta, sia inserendo il prefisso *-6–7 prima di fare una telefonata, oppure richiedendo l’anonimato all’azienda telefonica. Ma TrapCall sfrutta una scappatoia del sistema di blocco dell’Identificativo chiamante che da sempre è stata un vantaggio per i clienti aziendali: le chiamate ai numeri gratuiti non vengono occultate, perché sono chiamate a carico del destinatario.

TrapCall istruisce i nuovi clienti del servizio a riprogrammare i propri cellulari così da inviare tutte le chiamate respinte, perse, non risposte, al numero gratuito di TrapCall. Se l’utente vede una chiamata in arrivo con l’Identificativo chiamante occultato, è sufficiente che prema il pulsante che normalmente inoltrerebbe la chiamata alla messaggeria vocale. La chiamata viene dirottata (in maniera del tutto invisibile al chiamante) attraverso il sistema di TelTech, e poi reindirizzata al telefono dell’utente, stavolta con il numero di chi chiama bene in vista. 

Ovviamente, c’è chi vede in questa novità delle ripercussioni negative per la privacy:

Questo nuovo servizio non è particolarmente gradito ai sostenitori delle vittime di violenze domestiche, che hanno lottato duramente quando fu introdotto l’Identificativo di chiamata affinché venisse data la possibilità di occultare gratuitamente il numero di telefono. […] Cindy Southworth, direttore della tecnologia al National Network to End Domestic Violence di Washington DC, teme che il nuovo servizio sarà utilizzato dal partner o coniuge violento per localizzare l’altro partner fuggito dalla relazione. […] Il problema è grave, perché le vittime di violenze domestiche che si sono allontanate dalla relazione abusiva spesso devono rimanere in contatto telefonico con il partner abusivo, per legge, specialmente in situazioni in cui la coppia separata condivide la custodia dei figli. […] In questi casi le vittime spesso si affidano al blocco dell’Identificativo chiamante per evitare che l’ex-partner sappia da dove stanno chiamando, e quindi dove vivono.

Cohen minimizza tali preoccupazioni, sostenendo che il blocco dell’Identificativo chiamante non è mai stato un sistema sicuro. È molto semplice inoltrare un numero di telefono verso un numero 800 dall’ufficio, e da lì si vede benissimo il numero di chi chiama, dice. Almeno ora TrapCall smonterà la falsa illusione di privacy dietro il blocco dell’Identificativo di chiamata.

TelTech non è estranea alle controversie. L’altro suo prodotto, SpoofCard, permette agli utenti di mascherare il proprio Identificativo chiamante con qualsiasi numero di loro invenzione. Fra le altre cose, questo servizio di spoofing è stato utilizzato da ladri per attivare carte di credito rubate, da hacker per accedere alla messaggeria vocale di personaggi famosi, e da chi fa scherzi telefonici per creare una situazione pericolosa, detta swatting, in cui chiamano la polizia usando il numero di chi vogliono bersagliare, fingendo una situazione con ostaggi. Lo scopo dello swatting (realizzato in centinaia di casi in tutto il paese) è quello di fare in modo che una squadra di poliziotti armati faccia irruzione nella casa della vittima dello scherzo.

L’azienda di Cohen ha collaborato in varie indagini della polizia su casi di abuso di SpoofCard, che hanno prodotto una serie di arresti e condanne. Malgrado i reati di spoofing, Cohen insiste che la maggior parte degli utenti di SpoofCard sono semplicemente clienti che tengono alla propria privacy, fra cui celebrità, funzionari governativi, investigatori privati e persino vittime di abusi coniugali. […]

L’unica maniera per occultare il proprio numero, quando attiveremo TrapCall, sarà quella di usare SpoofCard, ha concluso Cohen con una risata. 

Geniale. Tutto quanto riportato, ovviamente, vale per gli Stati Uniti, e non so come funzioni l’occultamento dell’Identificativo chiamata qui in Europa. Ma personalmente non mi dispiacerebbe approfittare di un servizio del genere. Per un certo periodo, nel 2003, sono stato vittima di continue chiamate anonime, sia al mio numero di casa, che al numero di cellulare, alle ore più assurde del giorno e della notte. Le prime volte ho risposto, perché avevo un paio di amici che, quando mi chiamavano dal lavoro, non si vedeva il numero. Quando rispondevo, la persona dall’altro capo del telefono stava in ascolto e poi riattaccava. Per un po’ ho sopportato. Quando un giorno ho risposto minacciando di andare dai Carabinieri, chissà perché, le telefonate sono cessate quasi subito. Ma tutta la vicenda mi ha infastidito non poco. È vero che la possibilità di occultare il numero salvaguarda la privacy del chiamante, ma che ne è della privacy del destinatario? La mia attuale politica è quella di non rispondere mai se non vedo il numero di chi mi sta chiamando, ma questo non toglie che sia una seccatura che mi irrita per principio.

L'adattatore che non c'è

Mele e appunti

Premessa

Qualche giorno fa è saltato fuori un argomento nella mailing list di Luca Accomazzi che, malgrado la sua piccolezza, ha scatenato una discussione piuttosto animata. Ho provato a dire la mia, ma da certe reazioni mi è rimasta l’impressione che il mio punto di vista non sia stato del tutto compreso, anche se a me è sembrato di esprimermi con la massima chiarezza possibile. Voglio riproporre l’argomento in questa sede anche per tastare il polso ai miei lettori consueti. Se fra di voi c’è qualche assiduo della lista di MisterAkko, può tranquillamente ignorare l’articolo, in quanto troverà essenzialmente cose che ho già detto.

Adattatori sì, adattatori no

Il nocciolo della diatriba è il fatto che Apple non abbia inserito nelle scatole dei nuovi Mac, che ormai sono privi di porta FireWire 400, un adattatore FW800-FW400 per garantire agli utenti la compatibilità all’indietro.

Alcuni membri della lista sostengono che Apple avrebbe potuto benissimo mettere questo adattatore, molto utile e molto economico (è privo di elettronica), e avrebbe anche fatto bella figura presso gli acquirenti.

Io posso anche essere d’accordo con questa posizione. Ricordo con piacere i tempi in cui le scatole dei prodotti Apple erano sì più ingombranti, ma anche ricche di accessori. Alcuni finivano sempre col rimanere eternamente incellophanati, ma era indubbio che con tutti quegli extra il prodotto acquisiva un certo valore agli occhi di chi lo aveva comprato.

È da qualche tempo, però, che Apple ha smesso di arricchire di accessori e adattatori le scatole dei Mac e di altri suoi prodotti. I miei interventi in lista non hanno cercato né di appoggiare, né di giustificare questa scelta. Ho semplicemente provato a capire il ragionamento che può esservi a monte, senza pretesa di aver ragione.

Il problema non è tanto l’aggiungere un adattatore nella scatola del Mac. Il problema è: aggiungiamo adattatori oppure no?

Se aggiungiamo adattatori, quali e quanti? Se aggiungiamo adattatori dobbiamo rispondere a tutte le esigenze possibili, altrimenti non ha senso mettere certi adattatori e certi altri no. Quindi, per esempio, nella scatola di un MacBook unibody dovrebbero esservi, fra adattatori e accessori:

  • Un adattatore USB/FW400 (L’ho inserito a livello teorico. Sebbene questi adattatori esistano, il supporto per Mac è praticamente inesistente) 
  • Un adattatore Mini DisplayPort-DVI
  • Un adattatore Mini DisplayPort-DVI (Dual Link)
  • Un adattatore Mini DisplayPort-VGA
  • Un modem esterno USB (Anche qui, forse aggiungerlo alla lista è una piccola esagerazione, ma non è vero che l’ADSL c’è dappertutto e, in fondo, è stata Apple a togliere i modem dai Mac)

Nella scatola di un MacBook Air dovrebbero esservi tutti gli adattatori summenzionati, più un adattatore USB/Ethernet. Nella scatola di un MacBook Pro e di tutti i nuovi Mac con solo porte FireWire 800 dovrebbero esservi quegli adattatori più naturalmente il famigerato adattatore FW800-FW400.

O tutti o nessuno

Invece Apple ha preferito non mettere alcun adattatore. Perché forse non a tutti servirebbero. Perché forse è economicamente meglio. (Forse un adattatore costerà anche poco, ma moltiplichiamo questo ‘poco’ per milioni di Mac e vediamo se non incide sul prezzo finale). Così, chi ha bisogno di un certo adattatore si comprerà quell’adattatore, e chi non ha bisogno di adattatori non si troverà niente di inutile nella scatola. Perché, per dire, non tutti quelli che comprano un MacBook Pro hanno un monitor esterno a cui attaccarlo o periferiche FireWire. Si potrebbe obiettare che Apple dovrebbe mettere solo certi adattatori, ma a mio modo di vedere non avrebbe molto senso. Un cliente potrebbe sempre chiedersi: perché hanno messo un adattatore Mini DisplayPort-DVI che a me serve VGA? O tutti o nessuno.

Se la decisione è mettere adattatori nella scatola, come decidere quali ‘ha senso’ mettere e quali no? Ci sono adattatori più urgenti di altri? Più importanti? Chi lo stabilisce e in base a quali dati? No, se la decisione deve essere ‘mettiamo gli adattatori’ saranno tutti gli adattatori utili al cliente, per interfacciare il suo Mac con il ventaglio più ampio di soluzioni.

Suppongo che per Apple sia più semplice e conveniente non metterne affatto. Una mossa forse antipatica, forse ‘scortese’ nei confronti dei clienti. Ma non sarebbe altrettanto scortese e antipatico trovare nella scatola del Mac solo quell’adattatore FW800-400 e non, per esempio, anche una serie di adattatori video? Seguendo il ragionamento di chi vorrebbe che Apple conservasse la compatibilità all’indietro, Apple dovrebbe mettere anche gli adattatori video, visto che ha cambiato la porta video sui nuovi Mac. E con il MacBook Air, Apple dovrebbe inserire l’adattatore USB/Ethernet. Per sopperire a una ‘mancanza’ del MacBook Air.

Insomma, per come la vedo io, il problema degli adattatori è un effetto valanga. Dato che in quest’ambito non esiste un adattatore ‘più importante’ o ‘più giusto’ di un altro, Apple, se scegliesse di mettere adattatori nelle scatole dei Mac, dovrebbe metterne un bel po’. E infatti, quando li metteva, non ne sceglieva uno a caso, o perché era il più logico: ne metteva più d’uno — si vedano i vari adattatori DVI-VGA, miniDVI-DVI, ecc. (Nella scatola del Cube veniva persino inserito un adattatore VGA-VGA che era più che altro un’estensione per poter collegare comodamente il cavo del monitor senza che si piegasse e strozzasse nella parte inferiore del Cube, dove si trovavano tutte le porte).

Metterne un bel po’ — con il rischio che alcuni di essi rimangano incellophanati tutta la vita perché alcuni sono inutili all’utente x, altri all’utente y, e altri ancora all’utente z — per Apple è anti-economico. Se la scelta è fra tutto o niente (perché non ha molto senso mettere alcuni adattatori e altri no), Apple preferisce scegliere niente. Tutto qui. Non mi sembra di sostenere cose che non stanno né in cielo né in terra.

Postilla

È ovvio che, se fosse per me, nella confezione del MacBook Pro che mi comprerò vorrei trovare tutti gli accessori possibili e immaginabili, come ai bei tempi. Ma così non è, e in un certo senso chi se ne frega — non mi sento particolarmente ferito o defraudato. Ho periferiche FW400, ma sono dischi vecchi e di scarsa capacità che aveva senso collegare a Mac più datati perché contengono dati utili a questi Mac, nonché il backup delle informazioni dei dischi interni dei Mac, nonché un sacco di applicazioni Mac OS 9 e precedenti. E continueranno a essere collegati a quei Mac.

Alla mia attuale macchina principale ho collegato dischi USB 2 molto più capaci. Quando comprerò il MacBook Pro, il suo disco interno sarà di 250 GB. È assai probabile che mi comprerò un disco esterno nuovo (FW800 o USB 2) con una capacità adeguata al nuovo MacBook Pro. È assai improbabile che avrò bisogno di collegare uno di quei vecchi dischi FireWire al Mac nuovo. E se proprio sono costretto a farlo perché voglio trasferire qualche cartella di file, non devo neanche comprare un adattatore. Collego il disco al PowerBook G4, collego il MacBook Pro al PowerBook via Ethernet e amen.

Quindi, semplicemente, mi comprerò a parte l’unico adattatore che mi servirà, ossia un adattatore video per collegare il MacBook Pro al monitor LCD con uscita VGA che possiedo e che va benone.

The narration restarts, transformed

Et Cetera

These are busy times, and the backlog of things worth talking about, linking about, ranting about, is starting to get unmanageable. Today has been strange so far. A 5‑hour sleep then waking up in a middle world — half still in the glistering twilight of sleep, half in the floating wreckage of wake. And, after breakfast, the jetlagged, sleepwalking haze got intermixed with anxiety and tachycardia. I have an assignment to finish, the sooner the better, and all day I felt delayed. Delayed inside. Dragging my brain like a load on my back.

In a burst of activity, like a flickering ember describing an unforeseen trajectory, I had an idea: reviving a frozen project, my interactive webfiction. Since it was just at the beginning, I’m trying an experiment: restarting the narration using a different format and medium, to see if it might work better that way, to see where it can bring the whole project. That’s why I created a Twitter account for it.

Follow, if you’re interested, and feel free to interact if you like. As usual, there’s no haste involved, and no expiration dates. Let’s see if Twitter’s tempo helps things move on.