In retrospettiva

Mele e appunti

Nel 2003, Steve Jobs fu intervistato da Jeff Goodell di Rolling Stone. Il nascente iTunes Music Store stava cominciando ad avere successo, e ricordo di aver letto quell’intervista con interesse. Oggi è risaltata fuori, menzionata in un articolo di Greg Sandoval, il quale fa notare come Jobs avesse già le idee molto chiare su vari argomenti: l’industria musicale, il DRM, la direzione in cui muovere Apple in tutto questo.

L’intervista originale si può trovare a questo link. Ho deciso di tradurne alcuni stralci salienti.

Di seguito, Jobs parla di come Apple ha avvicinato le etichette discografiche e del conseguente scontro di mentalità. Si noti come Jobs abbia in mano la strategia vincente (che culmina nell’iTunes Music Store) fin dall’inizio:

Come hanno reagito le aziende discografiche quando le avvicinò per la prima volta con la sua proposta di collaborazione con Apple?

Le compagnie discografiche hanno molte persone intelligenti. Il problema è che non sono pratiche di tecnologia. Le buone case discografiche sono in grado di fare una cosa incredibile: hanno persone che riescono a scegliere il candidato su 5.000 che avrà successo. E non hanno a disposizione molte informazioni per fare tale scelta: è un procedimento intuitivo. E le case discografiche migliori sanno come farlo con un tasso di successo ragionevolmente alto.

Credo che sia una buona cosa. Il problema è che non ha nulla a che vedere con la tecnologia. Perciò, quando arrivò Internet, quando arrivò Napster, questa gente non sapeva che pesci pigliare. Molte di queste persone non usavano computer né l’email; e per anni non hanno capito esattamente che cosa fosse Napster. Furono molto lenti a reagire. Anzi, in un certo senso non hanno ancora reagito. E quindi sono piuttosto vulnerabili quando vengono avvicinati da ‘esperti’ che sostengono che soluzioni tecniche risolveranno il problema, mentre in realtà non è vero.

A causa della loro ignoranza tecnica.

A causa della loro innocenza tecnica, mi sento di dire. Quando abbiamo iniziato a parlare con queste aziende discografiche… beh, ne è passato del tempo. Ci abbiamo messo 18 mesi. All’inizio abbiamo detto loro: nessuna di queste tecnologie di cui state parlando sarà in grado di funzionare. Abbiamo dei laureati qui che conoscono l’argomento a menadito, e non crediamo che sia possibile proteggere i contenuti digitali.

Naturalmente il furto di musica non è nulla di nuovo. Non ascoltava i bootleg di Bob Dylan?

Ovviamente. La novità oggi è questo sistema di distribuzione incredibilmente efficace di proprietà intellettuale rubata che si chiama Internet. E nessuno chiuderà Internet. E basta che un’unica copia rubata arrivi su Internet. E il modo in cui lo abbiamo spiegato alle case discografiche è stato: forza una serratura e aprirai ogni porta. Basta una sola persona che forzi la serratura. Nel peggiore dei casi uno prende gli output analogici del proprio riproduttore di CD, li registra nuovamente e li sbatte su Internet. Non potrete mai fermarlo. Quindi quel che dovete fare e competere con tutto questo.

All’inizio ci hanno sbattuti fuori. Ma siamo tornati più e più volte. La prima casa discografica a comprendere davvero il nostro discorso fu Warner. […] La seconda fu Universal. Poi iniziammo a fare progressi. Credo perché ci mettemmo a fare previsioni.

Abbiamo detto: questi servizi musicali su abbonamento che vengono forniti oggi sono destinati a fallire. Music Net fallirà, Press Play fallirà. Perché? Perché la gente non vuole comprare la musica per abbonamento. Prima acquistavano i 45 giri, poi gli LP, poi le musicassette, poi gli 8 tracce, poi i CD. La gente vuole comprare quel che scarica, vuole possedere la propria musica. Non si può noleggiare la musica e poi, un giorno, se si smette di pagare, tutta la musica noleggiata se ne va.

E poi, 10 dollari al mese sono 120 dollari l’anno. E 1.200 dollari in dieci anni. È una bella quantità di denaro che spendo per ascoltare le canzoni che amo. È più economico acquistare, ed è questo che farà la gente.

Ma le case discografiche non la vedevano così. C’erano persone dedicate allo sviluppo del business che continuavano a indicare AOL come il modello da seguire e dicevano: no, vogliamo quello, vogliamo un business basato sugli abbonamenti. La nostra risposta: non funzionerà.

Lentamente ma inesorabilmente, quando tali modelli non riuscirono ad avere successo, cominciammo ad acquisire un po’ di credibilità con queste persone. E inziarono a dirci: sapete, avete ragione sull’argomento — diteci di più.

[…]

Più tardi l’industria musicale ha minacciato di sbattere in galera chiunque fosse stato scoperto a scaricare musica illegalmente. Una mossa brillante, vero?

Beh, ma li capisco. Apple possiede una gran quantità di proprietà intellettuale. Abbiamo detto anche questo alle case discografiche: è molto seccante quando la gente ruba il nostro software. Per cui penso che sia nei loro diritti cercare di impedire che la gente rubi i loro prodotti.

La nostra posizione, fin dal principio, era che l’80% delle persone che rubano musica online non vogliono realmente essere dei ladri. Ma quello è un modo molto attraente di ottenere musica: è gratificazione istantanea. Non occorre recarsi al negozio di dischi; la musica è già digitalizzata, per cui non serve nemmeno rippare il CD. È così attraente che le persone sono disposte a diventare ladri pur di ottenere la musica con tale facilità. E dire loro che non dovrebbero comportarsi da ladri, senza un’alternativa legale che offra gli stessi benefici [dello scaricare musica illegalmente], suona un po’ vuoto. Abbiamo detto alle case discografiche: non sappiamo come possiate convincere gli utenti a non comportarsi da ladri, a meno che non siate in grado di offrire loro la carota e non solo il bastone. E la carota è questa: offriremo agli utenti un’esperienza migliore, e costerà loro soltanto un dollaro a canzone.

Finora avete venduto circa 20 milioni di brani su iTunes: sembra una bella cifra, finché non ci rende conto che in un anno la quantità di file musicali scambiati su Internet arriva a 35 miliardi.

Beh, non è necessario per noi arrivare così lontano. Mi pare che in un anno negli Stati Uniti si vendano circa 800 milioni di CD. Sono circa 10 miliardi di brani, giusto? Circa 10 miliardi di brani venduti legalmente negli USA. I nostri prossimi obiettivi sono di arrivare a 100 milioni di brani in un anno, poi 250 milioni, poi mezzo miliardo e infine un miliardo. E per arrivare a quel traguardo ci vorrà del tempo. Ma possiamo già vedere un percorso in cui la gente arriverà ad acquistare online un miliardo di brani all’anno. Da noi, sull’iTunes Music Store, e da altri. E sarà il 10% della musica che viene venduta oggi in USA. Arrivati a quel punto si continuerà a crescere. E magari un giorno tutta la musica verrà distribuita online. Perché Internet è stata fatta per distribuire musica, e Napster lo ha dimostrato.

David Bowie ha previsto che, a causa di Internet e della pirateria, il copyright morirà entro dieci anni. Lei è d’accordo?

No. Se scompare il copyright, se scompaiono i brevetti, se la protezione della proprietà intellettuale viene erosa, allora le persone smetteranno di investire. E questo fa male a tutti. Le persone devono avere l’incentivo per cui se investono e va tutto bene possano riceverne un guadagno adeguato. Altrimenti smetteranno di investire. […] Noi vogliamo offrire un’alternativa legale. E vogliamo renderla così attraente che tutti quegli utenti che vogliono essere onesti per davvero, e non vogliono rubare — ma che finora non hanno avuto altra scelta per ottenere online la loro musica — potranno avere finalmente quella scelta. E crediamo che, col tempo, la maggioranza delle persone che rubano musica sceglieranno di non farlo se si trovano di fronte un’alternativa economica e ragionevole. Siamo ottimisti, lo siamo sempre stati.

[…]

Altrettanto interessante è il punto di vista di Jobs sull’industria cinematografica e sulle sue differenze con l’industria musicale:

Molte persone che lavorano nell’industria cinematografica hanno visto quel che è accaduto all’industria musicale e credono che poi toccherà a loro. Lei come la vede?

È un problema. Ma i film sono molto diversi dalla musica. Anzitutto, sono centinaia di volte più grandi. Per cui, in paesi come gli Stati Uniti in cui la banda larga non è così evoluta, ci si mette un’eternità a scaricare una versione ad alta qualità di un film. E ricordiamoci che lo standard qualitativo verrà innalzato nel giro di quattro anni, quando avremo sul mercato i DVD ad alta definizione. Ciò farà aumentare i tempi di scaricamento di altre dieci volte. Secondariamente, i film non sono scomponibili in brani (come un album) facili da scaricare. Cinque minuti di un film non sono molto utili. Uno vuole l’intero film. In terzo luogo, vi è sempre stato un solo modo di comprare musica: su CD. Ora guardiamo i vari modi in cui è possibile acquistare legalmente un film: lo si può vedere al cinema, lo si può comprare su videocassetta o su DVD. Ma lo si può anche noleggiare presso Blockbuster o Netflix. Lo si può vedere con la pay-per-view. Lo si può vedere via cavo. Vi sono svariate maniere di ottenere legalmente un film. C’era solo un modo per ottenere legalmente la musica. È una differenza molto grande. Il sistema di distribuzione è molto più evoluto nell’industria cinematografica di quanto lo sia mai stato nell’industria musicale.

[…]

Verso la fine dell’intervista, l’attenzione ritorna nuovamente su Apple, e viene tirata in ballo l’annosa questione della ‘quota di mercato’. In passato ho cercato anch’io di spiegare — in conversazioni e per iscritto — che non bisogna osservare la quota assoluta e saltare alle conclusioni, ma occorre prima analizzare in quali mercati Apple si trova in competizione, e poi vedere qual è la vera quota di mercato di Apple in tali mercati. E le percentuali sono molto diverse. Ma Jobs lo spiega forse più chiaramente e sinteticamente:

Ovviamente la musica è un fattore importante per il futuro di Apple. Ma gli scettici hanno da sempre visto Apple come poco più di un innovativo laboratorio di Ricerca & Sviluppo per l’industria informatica. Apple innova, tutti saltano sul treno e ci guadagnano. Come sopravvive Apple in un’industria che sta diventando sempre più consolidata e matura?

Beh, anzitutto non credo che il ritratto che lei ha fatto della situazione sia poi così male. In questo momento, nel mercato del personal computer — nei termini di aziende che vendono personal computer — tutti stanno perdendo un sacco di soldi, tranne due compagnie.

Hewlett-Packard ha appena annunciato i suoi risultati, e ha appena perso 56 milioni di dollari nel mercato PC in un trimestre. Sono più di 200 milioni di dollari in un anno. Sony sta perdendo molto denaro nel mercato PC; stesso dicasi per Gateway, IBM, Toshiba. Tutti stanno perdendo soldi in questo business, a eccezione di Dell, che sta guadagnando un bel po’ di denaro, e Apple, che sta guadagnando abbastanza denaro.

Dell fa soldi perché sta portando via quote di mercato alla concorrenza, dato che tutti loro vendono lo stesso prodotto. Noi stiamo facendo un po’ di soldi perché stiamo innovando. […]

Eppure la quota di mercato di Apple sembra ferma al 5% circa negli USA e al 3% nel resto del mondo.

Quindi la nostra quota di mercato è ancora più grande di quella di BMW e Mercedes nell’industria dell’automobile. Eppure nessuno pensa che BMW e Mercedes spariranno, e nessuno pensa che si trovino in una posizione svantaggiata, perché quella è la loro quota di mercato. Anzi, sono entrambi marchi e prodotti altamente desiderabili.

Ma è un’analogia appropriata? Mercedes non dipende da una massa critica di sviluppatori software per creare un prodotto utile.

Solo che noi, adesso, quella massa critica l’abbiamo. In altre parole, la cosa che occorre capire della famigerata quota di mercato di Apple è che se si guarda con più attenzione, Apple non vende computer in massa perché arrivino su tutte le scrivanie di tutte le aziende. Pertanto, eliminato questo particolare, nei mercati rimanenti la nostra quota di mercato è molto più alta. La nostra quota di mercato consumer è raddoppiata negli ultimi anni — raddoppiata. Analogamente la nostra quota di mercato nel settore creativo-professionale supera il 50%.

Perciò, quando osserviamo i mercati in cui Apple compete, la nostra quota di mercato non è il 5% o il 3%, ma va dal 10% al 60%. In certi casi raggiunge persino il 90%. È questo il mito della quota di mercato. Se buttiamo dentro le enormi quantità di PC vendute alle aziende, ciò non potrà che diluire la nostra quota di mercato. Ma si tratta di un mercato in cui noi non competiamo. È come dire: aggiungiamo i computer venduti, che so, su Nettuno.

Si immagina un tempo in cui una versione di iPod diventerà per Apple più importante del Mac stesso?

Apple ha una serie di eccellenze: produciamo, credo, un design hardware molto buono; produciamo un ottimo design industriale; e scriviamo ottimo software di sistema e applicazioni. E siamo davvero bravi a racchiudere tutti questi elementi in un unico prodotto. Siamo gli unici rimasti a farlo nell’industria dei computer. E siamo davvero gli unici nell’industria dell’elettronica di consumo a sviluppare a fondo il software per i prodotti consumer. Pertanto tutte quelle qualità talentuose di Apple possono essere impiegate per realizzare personal computer, ma anche per realizzare prodotti come gli iPod. Ora stiamo producendo entrambe le cose, e vedremo che cosa ci riserva il futuro. […] 

La qualità dei manuali

Mele e appunti

Facendo un po’ d’ordine nella mia libreria sovraccarica, mi sono imbattuto nella mia piccola collezione di manuali. Fra di essi, il Manuale Utente del PowerBook 5300, il Manuale di Apple Remote Access, il Manuale di Riferimento del Software di Sistema [del PowerBook 5300], il Manuale Utente del PowerBook G4 (Titanium e Aluminium), tutta la manualistica a corredo del Newton MessagePad 2000, nonché altri manuali che non ho avuto cuore di buttare, come quello di una vecchia stampante HP DeskJet 550C che non possiedo più, per non parlare dei manuali di Word ed Excel 2.0, il manuale di Windows 3.1, il manuale del DOS 6.22, e altro materiale che nemmeno ricordavo di avere, come il manualetto di Equation Editor (104 pagine).

Tutti questi libri hanno un paio di denominatori comuni: sono cospicui e ben scritti. Mi sono messo a sfogliarne alcuni e non ho potuto fare a meno di notare la qualità della documentazione e la chiarezza nello spiegare anche le cose forse più banali nei minimi dettagli. Quando si dice ‘a prova di idiota’. Un esempio ancora più lampante, anche se più oscuro, è il manuale utente del Cambridge Z88, un computer ultraportatile prodotto nel 1988 e ideato da quel Sir Clive Sinclair che produsse il famoso ZX Spectrum. Il volume in questione supera le 200 pagine e spiega in maniera chiara e discorsiva tutto quel che c’è da sapere per l’utilizzo di questo computer.

I manuali che accompagnano i Mac e i PC di oggi, ma anche dei sistemi operativi e delle principali suite software, sono tutta un’altra cosa — e non è un complimento. A parte che oggi quel tipo di manualistica è scomparso. Prima si trovava il volume, poi si è passati a inserire un CD-ROM contenente la documentazione in formato elettronico, poi si è passati al foglietto che riporta una serie di siti Web dove trovare la documentazione necessaria. Intendiamoci, non sto auspicando il ritorno dei volumi cartacei, ingombranti e costosi da produrre. A me i file PDF vanno benissimo. Sto auspicando il ritorno di quella qualità e chiarezza che contraddistingue la manualistica di una quindicina d’anni fa.

Esistono indubbi vantaggi nell’avere un manuale in formato elettronico, e ancor più avendo un’intera sezione di un sito dedicata alla documentazione. Alcuni di tali vantaggi comprendono la facilità di ricerca e consultazione, e un continuo aggiornamento del materiale. Ma riscontro anche degli inconvenienti. Anzitutto la lettura di un testo sullo schermo del computer può essere molto più stancante per la vista; un altro inconveniente è la dispersione. Un manuale segue uno schema, una scaletta, un filo logico, e poi in fondo si trovano gli indici, che permettono all’utente di ricercare informazioni in maniera non sequenziale. Su Internet si trovano (parlo di Apple e Microsoft) le Knowledge Base che sono sostanzialmente indici senza manuale. (E se si vuole completezza di informazioni occorre cercare in lingua inglese, perché non tutti gli articoli sono tradotti in altre lingue, e l’italiano è un po’ la Cenerentola della situazione). Certo, ci sono anche i manuali per i singoli prodotti, in formato PDF, pronti da scaricare. Ne ho letti alcuni, e lo standard qualitativo è sceso in maniera percepibile. Sono manuali più aridi, più superficiali, che si concentrano sugli aspetti più importanti ma tralasciano (o danno per scontati) tutti quei dettagli e aspetti minori che i manuali di un tempo trattavano con stile e attenzione.

Suppongo che a dettare questo cambiamento siano state ragioni di ordine economico (una volta i manuali erano redatti da professionisti di scrittura tecnica; oggi onestamente non saprei dire da quel che leggo), ma anche culturale: la penetrazione del personal computer a livello domestico alla fine degli anni Ottanta era assai differente da quella odierna. È probabile che i manuali dell’hardware dell’epoca rispecchiassero la ‘novità’ dell’oggetto computer, pertanto ne spiegavano minuziosamente il funzionamento come fosse un nuovo complicato elettrodomestico. I manuali odierni danno per scontato molti concetti base (i dispositivi di puntamento, certe metafore e azioni dell’interfaccia utente, ecc.) e soprattutto danno per scontato che l’utente abbia già visto e adoperato un computer. Che sia l’approccio giusto, malgrado la grande penetrazione dell’informatica oggi, non ne sono del tutto convinto. Nei miei passati interventi di assistenza, la stragrande maggioranza dei problemi in cui incappavano gli utenti erano legati proprio a quei concetti base che manuali e guide odierne danno per scontati. Malgrado la semplicità dell’interfaccia grafica del Mac rispetto alla concorrenza, molti utenti continuano a confondersi o a perdersi in un bicchier d’acqua (specie se provenienti da altre piattaforme). In questi casi è vero che occorre saper cercare le informazioni in Internet (oggi è imperdonabile non saperlo fare), ma avere l’appoggio di un manuale ben scritto e articolato — non importa in quale formato, cartaceo o elettronico — è a mio avviso fondamentale. Spesso l’utente in panne non sa esattamente che cosa cercare: un buon manuale serve, fra le altre cose, a orientare l’utente sprovveduto, fornendo una serie di contesti in cui iniziare le ricerche.

Statistiche di vita quotidiana

Mele e appunti

È da un paio d’anni che non mi perdo i Report annuali creati da Nicholas Felton, che lui chiama Feltron Annual Reports. Finora ne ha creati quattro e li potete vedere al link fornito. Sono lavori incredibilmente precisi e ben disegnati, in cui Felton sviscera nel dettaglio tutte le proprie abitudini quotidiane, trasformandole in statistiche: quante foto ha scattato durante l’anno, quante miglia ha percorso giornalmente, che tipo di cibo ha mangiato e dove, quante birre ha bevuto e di quale provenienza, e molto molto altro. Tutto maniacalmente annotato, sommato, analizzato.

Di link in link, sono approdato a questo articolo del Wall Street Journal Online: The New Examined Life (lett. La nuova vita sotto esame), in cui si parla del lavoro di Felton e del fatto che questo tizio non sia un caso isolato, ma sia il rappresentante più eminente di una nuova tendenza in cui sempre più persone manifestano interesse a passare la propria vita quotidiana sotto il filtro della statistica.

Dall’articolo:

In parte esperimento, in parte auto-aiuto, questi progetti di “informatica personale”, come vengono chiamati, stanno prendendo piede anche grazie a persone come Felton, che trovano un significato nella trivialità quotidiana. A loro disposizione esiste tutta una serie di strumenti virtuali che li aiutano a diventare i propri ‘contabili forensi’ — fra cui siti come Dopplr, che permette di gestire e condividere i propri itinerari di viaggio, e Mon.thly.Info, per tener traccia dei cicli mestruali. […]

L’obiettivo di Felton e altri come lui è quello di riprendersi i dati, togliendoli dalle mani di statistici e scienziati, e incorporarli nelle nostre vite quotidiane. Tutti creiamo dati — ogni sorriso, conversazione, passaggio in macchina è un potenziale frammento di informazione. Questi ‘aggregatori quotidiani’ credono che la compilazione delle nostre attività di ogni giorno possa rivelare gli schemi segreti che governano il modo in cui viviamo. Per gli studenti di informatica personale, tale pratica è liberatoria perché dimostra che le nostre vite non sono casuali e sono molto più ordinate di quanto alcuni si aspetterebbero.

La cultura della condivisione di informazioni online, in questi anni, ha spostato il centro dell’attenzione dai lunghi resoconti dei blog personali verso gli onnipresenti micro-movimenti delle vite quotidiane dei blogger. Siti di microblogging come Twitter sono ormai una cosa molto comune. […] Alcuni siti raccolgono dati automaticamente per i propri utenti. Last.fm mantiene un archivio di tutti i brani ascoltati dagli utenti, e Netflix tiene traccia delle abitudini cinematografiche dei propri membri.

[…] I cronisti informatici di oggi sono semplicemente l’ultima incarnazione di una lunga storia di diaristi e scienziati che prendevano appunti a mano.

[…] Alcuni di questi nuovi ‘collezionisti di dati’ sperano di prendere decisioni migliori per quanto riguarda le loro attività e così migliorare la qualità della loro vita. Durante gli ultimi quattro mesi, Alexandra Carmichael, che ha fondato a San Francisco un sito Web di ricerca sulla salute chiamato CureTogether, ha tenuto traccia di più di 40 categorie di informazioni sulla propria salute e abitudini personali. Oltre alla quantità di calorie assunte giornalmente, il suo peso al mattino e il tipo e la durata dei suoi esercizi fisici, Alexandra annota anche il suo umore quotidiano. […]

Dalle sue prime stime, ha concluso che il suo umore migliorava quando faceva ginnastica e peggiorava quando mangiava troppo. “Ho compreso che il mio rapporto col cibo è distorto e nocivo”, ha detto. Ha dedotto che potrebbe avere un qualche tipo di disturbo alimentare e ha deciso di rivolgersi a un terapista.

[…] La raccolta di dati personali può però ostacolare lo stile di vita stesso, come ammettono alcuni. “Diventa un’ossessione”, dice Toli Galanis, un aspirante cineasta di New York che tiene traccia di qualsiasi cosa, dai suoi livelli di mercurio al consumo di vitamina D. Ha detto che ha dovuto rinunciare alle uscite con gli amici quando sta provando una nuova dieta che richiede pasti programmati, e che suscita strane occhiate da parte dei suoi genitori quando misura la sua cena al grammo.

Eppure aggiunge che “La vita e i suoi obiettivi sono come un laboratorio. Perché non usarli come farebbe uno scienziato? Così uno sa davvero quel che vuole. Esistono così tante informazioni [che ci circondano] che sarebbe un peccato non registrarle”. 

E ora qualche osservazione.

Sarà un limite mio senz’altro, ma fatico a vedere il lato affascinante di tutto questo. O meglio, trovo interessante sfogliare le statistiche elaborate e ben congegnate di Nicholas Felton, ma non riesco a vederne la reale utilità, se non in casi specifici. Potrei senza dubbio mettermi a fare qualcosa di analogo (Felton ha co-fondato un sito, Daytum, che aiuta a crearsi le proprie statistiche), ma sarebbe soltanto qualcosa di ludico e curioso (quanti litri di acqua ho bevuto questa settimana?) e non mi metterei certo ad annotare la mia intera attività diaria a caccia di chissà quali dettagli. Queste statistiche personali e gli strumenti per raccoglierle potrebbero essere utili a chi appunto sta seguendo una dieta o un qualche regime regolamentato o un’attività che necessita di programmazione e controllo (una convalescenza, una formazione atletica, ecc.), ma per il resto, no grazie, preferisco tenermi il naturale disordine che mi circonda e impiegare il mio tempo in maniera più proficua.

Leggendo quelle esperienze descritte nell’articolo del WSJ non posso non chiedermi come caspita vivono quelle persone. Probabilmente per loro sarà affascinante andare al ristorante “Da Luigi” e poi tornare a casa (o forse lo fanno direttamente sul posto) e segnarsi che hanno mangiato una pasta con spinaci e ricotta, bevuto 65 cl di vino (nome del vino e provenienza), percorso 1,6 km da casa al ristorante, nonché annotare le coordinate del ristorante su Google Maps. A me sembra svuotare la vita di significato, e renderla solo un cumulo di dati asettici. Io in simili circostanze preferisco ricordare la compagnia e il buon cibo.

Quando ho letto di Alexandra Carmichael (Dalle sue prime stime, ha concluso che il suo umore migliorava quando faceva ginnastica e peggiorava quando mangiava troppo. “Ho compreso che il mio rapporto col cibo è distorto e nocivo”, ha detto. Ha dedotto che potrebbe avere un qualche tipo di disturbo alimentare e ha deciso di rivolgersi a un terapista) non ho potuto fare a meno di pensare “E ha dovuto annotarsi tutti quei dati per capire che l’andamento del suo umore era legato alla soddisfazione di sé?”. Ma forse ragiono in maniera troppo semplice.

L’impatto della tecnologia in tutto questo è notevole. Ma dove stiamo andando? A me questa iperconcentrazione sui propri ombelichi un po’ spaventa, questa digitalizzazione (riduzione al dato) della quotidianità a tutti i costi mi sembra più un impoverimento che un arricchimento della vita, mi sembra una riduzione della nostra vita (già corta e piena di problemi) a cavia in balìa di stupide statistiche che non vanno da nessuna parte, se non verso un bizzarro, distorto autocompiacimento.

iPhone: note mobili (8)

Mele e appunti

Come accennavo nel post precedente, avere iPhone con me in ospedale non mi ha portato altro che vantaggi e mi ha aiutato parecchio a non rimanere tagliato fuori dal mondo online (almeno quella piccola fetta di mondo online che mi interessa). Mentre le ore interminabili passavano come sabbia in una grossa clessidra, pensavo a quando ero stato in ospedale la volta precedente, nel maggio 2008, prima che avessi iPhone: non c’è paragone. Lo scorso maggio mi toccò tenere aggiornati un paio di clienti a suon di SMS scritti senza T9 sul mio SonyEricsson K700i (lo comprai qui in Spagna e non ha l’italiano fra le lingue del dizionario predittivo) — roba da artrite deformante, col senno di poi. Questa volta ho corrisposto via email come se niente fosse, scrivendo agilmente con la tastiera virtuale di iPhone, anche con il solo pollice. In più, essendo la posta elettronica traffico dati che ho già pagato, le comunicazioni sono state molto più a buon mercato, sia per me che per i clienti.

Ma ancora una volta devo sottolineare alcuni aspetti di iPhone già sottolineati in precedenza. Anzitutto, la comodità di avere Internet dovunque e comunque è senza prezzo. (Certo, compatibilmente alla copertura 3G dell’operatore. Ma dato che mi trovavo al quinto piano di un ospedale in una zona abbastanza centrale, avevo massimo segnale). Ogni volta che mi arriva una bolletta telefonica un filino più cara del previsto, penso a questo vantaggio e mi dico che solo per questo val la pena sottoscrivere un contratto biennale con l’operatore. Durante la degenza, avere la possibilità di accedere a Internet non è stata una comodità solo per me (leggere la posta, visitare i siti preferiti, leggere i feed RSS per tenermi aggiornato con le ultime novità), ma è servito anche a mia moglie, che aveva bisogno di trovare un medicinale e le farmacie più vicine all’ospedale ne erano prive. Abbiamo cercato su iPhone tutte le farmacie nel raggio di un chilometro, e alla fine ha trovato quel che cercava — in una farmacia di una via traversa che neanche conosceva. In un’altra occasione, Carmen aveva voglia di comprarsi qualcosa di diverso dal solito panino che si portava per pranzare, e abbiamo trovato — sempre con iPhone — una pizzeria take away nei paraggi con buoni prezzi e buon cibo.

Altro aspetto che mi ha positivamente sorpreso di iPhone è stata la durata della batteria. Non so se sono stato particolarmente fortunato nell’acquisto, o se è dovuto alla buona manutenzione della batteria (come consigliato nel manuale, di tanto in tanto lascio che si scarichi completamente, fino a che iPhone si spegne da solo, e poi eseguo una carica completa), ma iPhone, anche nei giorni di uso molto intenso, sembrava non scaricarsi mai, e una carica mi durava almeno 48 ore, senza spegnere iPhone durante la notte (a volte ero stanco, mi addormentavo e lo lasciavo in stop). Con uso molto intenso mi riferisco a molta navigazione Web via 3G, ascolto continuato di musica (spesso mentre navigavo), uso di applicazioni che consumano risorse (Google Maps, il gioco degli scacchi, altri rompicapi, ecc.), ricerca e visione di svariati video di YouTube, messaggi di testo e telefonate (poche ma buone), lettura di e‑book.

Avevo con me anche il Newton MessagePad 2100 perché volevo approfittare della degenza per ultimare alcuni appunti per una prossima raccolta di poesie. Complice anche un’interessante discussione su NewtonTalk, non ho potuto fare a meno di riflettere sui due dispositivi, sui loro usi, e se iPhone / iPod touch siano o meno il “Newton del XXI secolo”. Certamente iPhone non sostituisce il Newton; iPhone è meglio di Newton in molti aspetti, se non altro perché racchiude tecnologie più moderne (in fin dei conti tra MessagePad 2100 e iPhone ci sono 10 anni — che in informatica equivalgono a un’èra geologica). iPhone può anche essere ‘erede’ di Newton nel senso che rispecchia in maniera più attuale ciò che Assistente Personale Digitale significa oggi. Esistono tuttavia alcune funzionalità per le quali il Newton rimane superiore, per ora, a iPhone. Riconoscimento della scrittura, interoperabilità delle applicazioni, utilità di terze parti che sopperiscono a carenze del sistema e ‘ci costruiscono sopra’, per così dire; e infine la gestione dei contenuti creati. Ed è a questo punto che, seguendo la discussione su NewtonTalk, mi è venuta una piccola epifania che possa spiegare in modo chiaro e sintetico la differenza che iPhone e Newton presentano a livello di DNA: Newton è un dispositivo per la creazione di contenuti, mentre iPhone / iPod touch sono dispositivi per la consultazione dei contenuti.

Se riflettiamo su questa distinzione base possiamo meglio comprendere certi punti forti e deboli di entrambi i dispositivi, in primis quanto sia facile creare note e documenti (di testo, di calcolo, di disegno) sul Newton e quanto, in proporzione, sia difficile fare la stessa cosa su iPhone. Inoltre sul Newton tutto è incentrato sul documento e sul dato: si crea una nota, o due pagine di testo, o un appuntamento in agenda, o un compito da svolgere, e partendo da lì, con un semplice menu a discesa, è possibile gestire l’informazione nei modi più vari: spedirla per email, archiviarla in una memoria flash esterna, inviarla a un altro Newton via infrarossi, duplicarla, cancellarla, e così via. Su iPhone questo tipo di interoperabilità è un po’ più limitato (si può inviare via email un’immagine, un link, una posizione sulla mappa; si può selezionare un contatto e decidere se chiamarlo o inviargli un SMS; e simili).

Ma come dispositivo per la consultazione e fruizione di contenuti, iPhone / iPod touch è imbattibile e, per svolgere tale compito, dispone dell’interfaccia migliore in circolazione. In quest’ottica ha senso optare per il multi-touch invece di usare uno stilo; ha senso creare applicazioni che facciano bene una cosa in particolare (come l’applicazione YouTube); ha senso privilegiare la manipolazione semplicissima di dati e contenuti già pronti invece di complicare l’interfaccia utente cercando di farle svolgere compiti al limite dell’usabilità (ossia raffinatezze che sarebbero meglio gestite con un dispositivo di puntamento diverso rispetto al dito, come appunto uno stilo).

Certo, c’è chi tuttora vede un Assistente Personale Digitale come un dispositivo che innanzi tutto crei dei contenuti, e cercando di applicare tale concetto all’iPhone non potrà che rimanere deluso da quel che iPhone offre. Meglio, in questo caso, rivolgersi altrove. iPhone non è un dispositivo perfetto e possiede tutta una serie di limitazioni: il trucco è comprenderne la natura. Se le proprie esigenze vertono più sulla rapida, semplice e potente consultazione dei contenuti, allora iPhone sarà — come lo è stato per me in ospedale, e come lo è per me tutti i giorni — un ‘assistente’ inseparabile.

12 giorni e 2 ospedali dopo

Mele e appunti

Per non esulare del tutto dal tema principale del mio blog, citerò Steve Jobs:

Le problematiche legate alla mia salute sono più complesse di quanto avessi inizialmente pensato.

Nel mio caso mi affretto a precisare il verbo al passato: sono state più complesse, eccetera. Scrivo questo breve post soprattutto per ringraziare tutte le persone che mi hanno fatto sinceri auguri e in bocca al lupo, commentando il post precedente. Grazie davvero. Purtroppo è stato il lupo a prevalere, e quella che doveva essere una breve degenza di tre dì al massimo si è tramutata nella solita esperienza prolungata e indesiderata dovuta a complicazioni post-operatorie (prima un blocco dell’apparato digerente, poi un’infezione alle vie respiratorie). Oggi — dopo 12 giorni, 2 ospedali, 7 lastre toraciche e addominali, 9 fiale di campioni di sangue, 1 ecografia e innumerevoli flebo — sono rientrato a casa, dove continuerò la cura a base di antibiotici per risolvere l’inghippo polmonare. Fegato, stomaco e intestino stanno bene.

Quando avrò più energie, ci sarebbe da raccontare questa nuova odissea ospedaliera. Va detto che iPhone è stato un compagno digitale essenziale per rimanere aggiornato con la posta elettronica più importante, per aggiornare a mia volta i clienti sulla mia situazione, per ascoltare musica, passare il tempo (bisognerebbe fare uno studio serio sul fuso orario di un ospedale) e fare qualche leggera navigazione Web, così da tenermi un po’ al corrente. Avrei voluto scrivere un aggiornamento al blog direttamente da iPhone, ma mi sono mancate le forze e l’agilità di mano necessarie (avevo flebo collegate a entrambe le braccia).

Ancora grazie a chi si è interessato della mia salute. È un onore avervi come lettori.