Il sistema operativo che vorrei

Mele e appunti

Premessa

Questo post nasce da una riflessione scaturita da una serie di osservazioni recenti, tutte relative all’interazione utente-dispositivo, dove ‘dispositivo’ può essere di tutto — da un telefono, a un software, a un computer, a un sistema operativo. Leggevo l’altro giorno dei difetti del nuovo BlackBerry Storm evidenziati da David Pogue; poi mi è capitato di aiutare mia moglie (che si ostina a usare PC) a risolvere una situazione frustrante su Vista (un sito in Firefox richiedeva l’installazione di un plug-in di Java, e proponeva un download diretto; Vista ha iniziato a protestare visualizzando una finestra di dialogo “Questa versione di Java potrebbe essere anteriore a quella già installata nel sistema” — cercando di chiudere la finestra se ne apriva un’altra e così via, e la povera Carmen si ritrovava con 24 finestre di errore identiche e sovrapposte. Abbiamo dovuto chiudere forzatamente quasi tutto usando l’equivalente Windows di Monitoraggio Attività); poi, nei miei tentativi di installare NEXTSTEP 3.3 prima su una macchina virtuale in Virtual PC 7, poi su un PC vero, non ho potuto fare a meno di notare la complessità dell’intera procedura di installazione. Ieri notte, infine, leggevo questo post dell’amico Lucio. Volevo commentare direttamente, perché con queste premesse mi ritrovavo particolarmente ispirato. Ma visto che quando un argomento è gustoso io faccio fatica a essere sintetico, ho pensato di estendere la riflessione in questa sede.

Nel post su Ping! Lucio propone due alternative ‘ipotesi di lavoro’ per l’evoluzione di Mac OS X:

Mac OS X dovrebbe evolversi verso un enorme sistema che ingloba quanto più può in termini di funzioni, per accontentare il maggior numero di utenti da subito dopo l’installazione, oppure un software snello ed essenziale che ognuno è libero di arricchire e personalizzare come può utilizzando ciò che offre la piazza software?

Ecco, io vorrei che il futuro sistema operativo, qualunque esso sia (ma chiaramente preferirei si trattasse di Mac OS X), sia una somma di queste due alternative. Vorrei che fosse fondamentalmente trasparente e modulare.

La trasparenza

I sistemi operativi attuali a mio avviso soffrono tutti, in varia misura, di un problema radicale: sono troppo presenti, troppo in faccia all’utente, troppo egocentrici. Un sistema operativo evoluto deve essere trasparente. Deve togliersi di mezzo quanto più possibile e lasciare che l’utente si concentri su quel che sta facendo o che deve fare. Questo vale per il sistema operativo e naturalmente per i software da utilizzare. Mi ha particolarmente colpito una recente osservazione di Rands: Quando sto usando Word, continuo a vedere Word, e non quel che dovrei vedere, ossia ciò che sto scrivendo. Che è verissimo, direi addirittura che vale per l’intera piattaforma Microsoft Windows. Questo non accade se il software (e l’intero sistema operativo) è progettato per essere trasparente. Sono sempre stato un sostenitore delle soluzioni incentrate sui documenti, non sulle applicazioni (vedi come funziona il Newton, o come avrebbe dovuto essere l’architettura OpenDoc, o come funzionava il Lisa). Nel mio sistema operativo ideale, che dovrebbe preoccuparsi dell’utente e non del proprio ombelico, l’utente non dovrebbe porsi il problema di quale software utilizzare per eseguire il tal compito, ma concentrarsi sul compito: sarà il sistema operativo a fornire gli strumenti.

Trasparente non vuol dire invisibile. Trasparente non vuol dire occultare informazioni utili all’utente. È chiaro che per ragioni di sicurezza, se occorre installare software che richiedono permessi di amministratore, il sistema operativo dovrà darne notifica e lasciare la decisione all’utente. Esprimendosi però sempre in un linguaggio accessibile. E, soprattutto, evitando di proporre all’utente delle alternative potenzialmente disorientanti e foriere di disastri. Quel messaggio che Windows Vista ha visualizzato al centro dello schermo del portatile di mia moglie è oscuro, non aiuta a risolvere la situazione, e non permette all’utente di decidere nulla, malgrado proponga le opzioni di ‘Accettare’, ‘Ignorare’, ‘Annullare’. Che cosa significa che “Questa versione di Java potrebbe essere anteriore a quella installata nel sistema”? L’obiezione che sorge spontanea davanti a un tale messaggio è Se non lo sa il sistema operativo, dovrei forse saperlo io? E, aggiungo, se il sito propone di installare Java, non è che per caso manca qualche componente? Che poi sto dando per scontato che l’utente sappia anzitutto che cosa sia Java. Un sistema operativo intelligente e trasparente non mette il malcapitato utilizzatore in un tale ginepraio, ma installa le componenti necessarie a visualizzare i contenuti, facendo le verifiche necessarie della bontà e sicurezza del plug-in in background e al limite notificando all’utente l’operazione in corso. Se il sistema incontra un elemento che richiede il permesso dell’utente, che lo richieda, formulando la richiesta in un linguaggio il più possibile chiaro e corretto.

Tutta l’attività del sistema deve essere tracciata e tracciabile, dando all’utente la possibilità di tornare indietro se necessario. Anche qui, occorre rifondare il linguaggio dei sistemi operativi. Andate in Console e osservate il contenuto di system.log e ditemi che cosa e quanto capite di quel che sta scritto. Nel sistema operativo che vorrei, ci dovrebbe essere un elemento cliccabile chiamato Attività sul piano di lavoro. Aprendolo, ci sarebbero scritte cose del genere:

  • 28 nov 2008 — 07:43 — Avvio del computer.
  • 28 nov 2008 — 07:43 — Caricamento del sistema operativo.

[…]

  • 28 nov 2008 — 11:10 — Documento di testo “Lettera ad Apple” spostato nella cartella “Posta da inviare”.
  • 28 nov 2008 — 11:14 — Documento immagine “Welcome to Macintosh.png” scaricato dal sito “Wallpapers.com” e archiviato nella cartella “Download”.

Se un’azione è annullabile, a lato comparirà un pulsante che permetterà di tornare indietro indefinitamente, una sorta di Time Machine esteso a tutto il sistema. Nell’esempio sopra, le prime due entrate non sono ovviamente modificabili, le seconde sì. Si potrebbe valutare l’opzione di visualizzare un resoconto in modalità esperta, che se attivata visualizzi entrate come:

  • 28 nov 2008 — 13:03 — L’applicazione “Photoshop CS7” ha causato un conflitto con una componente della scheda grafica. [Maggiori informazioni] [Segnalare il problema]

Premendo “Maggiori informazioni” il sistema fornirà un elenco dettagliato del problema, comprensibile dagli addetti ai lavori, così che se l’utente è un programmatore o non è uno sprovveduto, possa avere un’idea più precisa di quel che è capitato.

In ogni caso, il nocciolo è comunicare in maniera il più possibile chiara e priva di ambiguità, indipendentemente dal livello di conoscenze dell’utente.

Sempre per parafrasare Rands, un sistema operativo dovrebbe essere intelligente in modo da potermi permettere di essere stupido. In questo senso, Apple mi dà certamente più speranze della concorrenza. Per esempio, un dettaglio che mi è sempre piaciuto dell’iPod prima e dell’iPhone adesso è il fatto che non sia necessario sapere dove sono archiviati i file, le applicazioni, i video e la musica su questi dispositivi. So che ci sono, li vedo, ne ho un accesso istantaneo. Vorrei un sistema operativo per computer che abbia questo tipo di trasparenza. Che non sia necessario sapere in quale sottolivello si trova la directory tale o la cartella talaltra. Il sistema avrà la sua area protetta per evitare che l’utente ci metta le zampe facendo sfracelli. Poi vi sarà un’area per l’utente in cui mettere tutto ciò che si vuole. Le gerarchie e i livelli esisteranno sempre, ma con un potente sistema di ricerca a tutto campo (immaginate uno Spotlight davvero ben fatto) l’utente avrà sempre meno l’esigenza di esplorare in verticale, per così dire.

Insomma, in un sistema operativo davvero trasparente, quando sto davanti al computer vedo il mio lavoro, non quello di altri.

La modularità

Oggi in tutti i sistemi operativi è assai facile installare nuove componenti, nuovo software di sistema e di terze parti, nuovi aggiornamenti, e così via. Spessissimo tutti questi software creano cartelle e file di impostazioni e preferenze in uno o più luoghi all’interno del sistema. L’utente è abbastanza ignaro di questi movimenti dietro le quinte, e la cosa andrebbe anche bene così, se non fosse che quando si vuole togliere del software, l’operazione non è così facile e trasparente. E si finisce con l’avere file sparsi in vari punti del disco rigido, spesso dai nomi astrusi e poco descrittivi, che l’utente dovrebbe eliminare a mano, sperando di eliminare i file corretti e sperando di eliminare tutto quanto era associato all’Applicazione XYZ.

In un sistema operativo veramente modulare, le cose funzionerebbero diversamente. Per prima cosa, all’atto dell’installazione del sistema stesso, l’utente dovrebbe trovarsi di fronte un menu ben congegnato, semplice da leggere e da comprendere, che presenti una serie di opzioni di cui l’utente possa facilmente capire le implicazioni. In questo Mac OS X ideale, l’utente inserisce il DVD (o il Blu-Ray!) di installazione, e Mac OS X gli dà il benvenuto. Poi vengono presentate le opzioni e i moduli che è possibile aggiungere. Si vuole il modulo “grafica e Web”? Mac OS X installerà applicazioni stile iLife. Si vuole il modulo “musica e video”? Ecco gli equivalenti futuri di iMovie e Garageband. Si vuole il modulo “business”? Ecco i futuri Keynote e Numbers. Fin qui niente di speciale. Il bello arriva quando l’utente, che ha voluto provare il modulo “Musica e Video” per fare quattro pasticci, si accorge che non gli interessa più, che occupa troppo spazio su disco, ecc., e lo vuole eliminare. Va a un ipotetico menu “Operazioni di Sistema” e sceglie l’eliminazione del modulo “Musica e Video”, eventualmente specificando se vuole rimuovere solo “Musica” o solo “Video”. Mac OS X chiede conferma e poi procede a eliminare l’intero modulo senza lasciare alcuna traccia. I file video e/o musicali creati dall’utente naturalmente rimangono salvati, a meno che non sia l’utente stesso a dare il permesso al Disinstallatore di eliminare anche quelli. In caso di pentimento, l’utente andrebbe nella “Console” (vedi sopra), troverebbe una voce come “28 Nov 2008 — 14:44 — Eliminata la cartella “Progetti video” (segue elenco dei file)”, farebbe clic su [Annulla] e, in puro stile Time Machine, i file riapparirebbero. L’operazione di ripulitura sarebbe comunque sempre… pulita.

In questo modo non ci si ritroverebbe con file orfani o cartelle contenenti la cache di un browser che abbiamo installato per prova sei mesi fa e che è rimasta lì, con i suoi 95 MB di file inutili (mi è accaduto facendo pulizia sull’iBook G3 clamshell — la cartella della cache era di Chimera, ossia l’attuale Camino quando era ancora alla versione 0.0.6 o giù di lì). Con un sistema modulare e versatile, l’utente sarebbe libero di installare quel che vuole sapendo che potrà sempre eliminare tutto senza lasciare residui e soprattutto senza compromettere la stabilità del sistema. In caso di problemi con un aggiornamento di sistema o di un certo software, l’utente potrebbe semplicemente dire a Mac OS X di annullare l’operazione e ripristinare la situazione com’era prima dell’aggiornamento problematico. Secondo me con un sistema del genere si lavorerebbe ancora meglio, sicuri di non correre il rischio di fare sciocchezze, di prendere decisioni poco informate (perché il sistema ci chiede di intraprendere azioni utilizzando un linguaggio oscuro e ambiguo), e soprattutto con la sicurezza che, qualsiasi cosa accada, si può tranquillamente tornare sui propri passi.

Quindi, per rispondere a Lucio, Mac OS X dovrebbe poter offrire all’utente entrambe le opzioni: rimanere snello ed essenziale, lasciando all’utente la libertà di usare soluzioni e software alternativi, lasciando persino all’utente la libertà di installare solo la parte UNIX senza interfaccia grafica, nel caso l’utente sia sufficientemente nerd per occuparsi del resto; e poter offrire più funzioni e soluzioni fatte in casa da Apple per quell’utenza che vuole avere una macchina completa e versatile fin da subito.

David Pogue prova il BlackBerry Storm

Mele e appunti

State of the Art — No Keyboard? And You Call This a BlackBerry? — NYTimes.com: Spassosa stroncatura di David Pogue, che prova Storm, il nuovo modello di BlackBerry, e il verdetto è sostanzialmente un ‘tempestoso’ disastro. I miei stralci preferiti (oddio, dovrei citare tutto, ma farò uno sforzo di sintesi):

Un BlackBerry senza tastiera? Oh no!:

Il primo segnale che annunciava guai era il concetto: un BlackBerry touch-screen. Proprio così, nel suo impagabile zelo per cercare di guadagnare sfruttando la mania del touch-screen tanto diffusa da iPhone, RIM ha prodotto un BlackBerry senza tastiera fisica. Sveglia! La tastiera fisica non è forse sempre stato l’elemento caratterizzante di un BlackBerry? Un BlackBerry senza tastiera è come un iPod senza scroll wheel.

La tastiera virtuale cambia a seconda dell’orientamento. Come su iPhone! O quasi:

Quando si tiene il telefono in orizzontale, ecco il completo layout di tastiera Qwerty noto a tutti. Ma quando si ruota il BlackBerry in verticale, viene visualizzato il tipo di tastiera SureType, meno preciso, perché su ogni ‘tasto’ appaiono due lettere: è il software che cerca di prevedere quale parola stiamo scrivendo.

Per esempio, per inserire la parola ‘get’ si premono i tasti GH, ER e TY. Disgraziatamente sono gli stessi tasti per scrivere ‘hey’ [due termini molto usati in inglese]. Il problema è evidente. E provare a digitare indirizzi Web o cognomi insoliti è un’impresa senza speranza.

Si possono scorrere elenchi con il dito, come su iPhone! O quasi:

Per scorrere un elenco, bisogna far passare il dito sullo schermo, come su iPhone. Ma anche un gesto così banale diventa frustrante da impazzire sul BlackBerry: il telefono impiega troppo tempo a capire che state scorrendo e non facendo tap. E immancabilmente si mette a evidenziare voci a caso dell’elenco quando si comincia a scorrere; e poi, prima che lo scorrimento inizi, c’è un ritardo che lascia disorientati.

Inoltre lo scrolling manca di slancio, e non acquisisce velocità se muoviamo il dito più velocemente, come su iPhone e sul telefono di Google. Quindi far passare una lunga lista di messaggi o di numeri telefonici è piuttosto stancante.

Il BlackBerry si chiamerà anche ‘Tempesta’ (Storm) ma a quanto pare non è un fulmine:

Ci possono volere due secondi buoni perché l’immagine sullo schermo cambi quando si ruota il telefono di 90 gradi, tre secondi prima che si lanci un programma, cinque secondi prima che un tap su un pulsante venga riconosciuto. (Ricordate: per convertire i secondi in ‘tempo BlackBerry’, dovete moltiplicare per sette).

In breve: cercare di navigare su questo coso non è solo un esercizio di frustrazione — è una maratona di frustrazione.

Povera RIM! Hanno cercato di seguire l’esempio di Apple, offrire meno funzioni per avere un prodotto migliore sotto il punto di vista dell’interfaccia utente, eccetera. Ma mi sa che hanno esagerato:

Non ho trovato una sola persona che dopo aver provato questo dispositivo non sia rimasta sconcertata, perplessa, o entrambe le cose. E questo ancor prima di scoprire che lo Storm non ha il Wi-Fi.

Ma aspettate, c’è di meno”:

Entrambi i BlackBerry Storm che ho avuto in prova hanno mostrato di avere più bachi di un picnic estivo. Congelamenti, riavvii inaspettati, controlli che non rispondono, anomalie grafiche.

Il mio preferito: quando cerco di immettere il mio indirizzo Gmail, la fotocamera dello Storm si mette in funzione d’improvviso, trasformando lo schermo in un mirino, anche se la tastiera virtuale continua a rimanere sovraimpressa per metà dello schermo.

La domanda, infine, nasce spontanea:

Come ha fatto questo coso ad arrivare sul mercato? Forse che tutti quelli coinvolti nella sua realizzazione erano troppo spaventati da tirare il freno di emergenza di questo treno?

* * * * *

[Aggiornamento — febbraio 2009: Se avete trovato questo post dopo una ricerca con Google sul BlackBerry Storm, prima di affrettarvi a commentare, vi pregherei di leggere la discussione nei commenti, in special modo i miei interventi, che spero servano a chiarire ulteriormente la mia posizione. Vorrei semplicemente evitare di riscrivere cose già scritte, e vorrei davvero evitare che la discussione degenerasse ulteriormente in una disputa “BlackBerry Storm contro iPhone” nello stile di tante dispute “PC contro Mac” — discussioni che non portano a nulla e nient’affatto costruttive. Se avete rancori contro Pogue, se pensate che la sua recensione sia di parte e poco obiettiva, scrivete a lui e non a me. Ogni commento che non tenga conto di questa mia nota verrà automaticamente cancellato. Grazie per la collaborazione.]

Perché sviluppiamo per iPhone

Mele e appunti

Segnalato dal buon vecchio Gruber: Connected Data | Why we develop for the iPhone. Perché preferiscono sviluppare per iPhone?

Per specializzarci sullo sviluppo per le piattaforme BlackBerry, dobbiamo creare una build per ogni modello di telefono e per ogni tipo di rete. Come sviluppatore, semplicemente non me lo posso permettere. La maggior parte dei miei clienti possiede un BlackBerry. Credo che entro due anni al massimo avranno tutti un iPhone. Già mi sono giunte voci di corridoio che alcuni senior executive stanno chiedendo ai dipartimenti IT di cominciare a investigare in questo senso. Noi dovremmo essere fra i primi sviluppatori per il “vero” contesto Enterprise ad avere una applicazione iPhone nativa. Possiamo fare così tante cose in Objective C invece che nella versione di Java che gira sui BlackBerry. Sì, so quanto Java sia potente. So anche quanto sia difficile sviluppare per Java.

Desideri esauditi

Mele e appunti

Sempre sfogliando il numero 61 di MacFormat UK del marzo 1998 di cui parlavo nel precedente articolo, mi sono imbattuto in un’altra lettura interessante. Specie se vista con dieci anni di distanza. All’interno del dossier “Semi del futuro — Il futuro inizia oggi” accennato ieri, c’è una piccola sezione in cui MacFormat ha pubblicato alcune risposte che gli utenti iscritti alla mailing list MacFormat Bulletin hanno dato alla domanda Cosa vorreste da Apple per il 1998? Beh, ecco alcuni esempi di contributi. Come dicevo, interessante…

Gli utenti PC credono che i Mac siano esageratamente costosi, però continuano a sopportare logiche e procedure esasperanti [di una piattaforma] che nessuno, abituato a utilizzare un Mac, crederebbe possa aver avuto tanto successo dal punto di vista commerciale. […] Perché Apple non inizia a fare un po’ di pubblicità comparativa?”
(D. Callahan, Aveiro, Portugal)

Ora che l’interfaccia grafica è un elemento consolidato dei computer domestici, Apple deve ridefinire l’aspetto di un computer domestico. Deve ideare un look and feel completamente nuovo. […] Rhapsody [Il sistema operativo che Apple stava progettando nel 1998 e che sarebbe poi diventato Mac OS X — N.d.RM] non farà colpo sulla gente se non avrà un aspetto rivoluzionario. Novità e miglioramenti in fatto di multi-tasking e multi-threading hanno un’importanza relativa, che l’utente domestico medio non apprezza. L’utente medio vuole il look and feel”.
(P. Williams, Edinburgh)

Mi piacerebbe poter andare in un negozio che vendesse solo hardware e software Apple. Non mi aspetto una catena come quella di PC World, ma di certo almeno alcune fra le città più grandi dovrebbero avere degli store Apple dove uno possa recarsi e chiedere consigli. […]”
(B. Cutler, Kenilworth, Warwickshire)

Fra le cose che vorrei Apple facesse (e in fretta):

  • Un sistema operativo con meno ‘cerotti’ e più robusto.
  • Un sistema operativo che all’avvio non ci metta tanto quanto Windows a caricarsi. […]
  • Un Mac davvero compatto, che possa stare anche su una scrivania di dimensioni normali e che non costi un occhio della testa.

(G. Carrington, Canberra, Australia)

La cosa più importante da fare per Apple è rivolgersi all’utenza consumer entry-level e alle piccole imprese, cosa che Umax ha fatto particolarmente bene nel 1997. La chiave del successo è lì. […]”
(C. Jenkin — senza indirizzo)

Perché Apple non si mette a scrivere Mac OS per la piattaforma Intel? Sarebbe un passo per diventare la piattaforma più diffusa! […]”
(S. Day — Watford) 

L'eredità del Think Different

Mele e appunti

Ho riesumato altre riviste dal mio archivio, e il faldone sulla mia scrivania adesso contiene svariati numeri di MacFormat UK del periodo 1998–1999. Il numero 61, del marzo 1998, è particolare perché celebra due cose insieme: il quinto compleanno della rivista, e la campagna pubblicitaria più emblematica della storia di Apple dopo il famoso mini-film 1984 creato per il lancio del primo Macintosh nel gennaio 1984 — sto parlando naturalmente della campagna Think Different. La copertina di questo numero è interamente nera, con al centro il logo Apple iridato e in bianco la scritta “Think Different.” — nient’altro.

Questo numero di MacFormat contiene una serie di articoli riuniti in una sorta di ‘dossier’ dal titolo “Semi del Futuro” che cerca di fare il punto della situazione di Apple in quel particolare momento storico. Un momento non facile: Jobs era appena rientrato e aveva ripreso le redini di un’azienda in crisi sotto tutti gli aspetti (da quello finanziario, a quello progettuale, a quello strategico). In pochi mesi Jobs era riuscito a rimettere Apple in carreggiata prendendo decisioni drastiche e tagliando ogni possibile ramo secco. Alcune di queste decisioni — come il dichiarare conclusa l’epoca dei cloni poco prima inaugurata dalla precedente amministrazione, o come l’interruzione dello sviluppo della piattaforma Newton — furono duramente criticate (James Straten, analista industriale, dichiarò: Apple ha imboccato una strada che la porterà a non essere più fra i nomi che contano nel mercato dei personal computer); tuttavia tale clima riformatore giovò sin da subito ad Apple, che già all’inizio del 1998 dava segni di ripresa e di ritrovata chiarezza dopo un percorso confuso che l’aveva portata in una spirale discendente nel periodo 1996–97.

In quel momento Apple stava iniziando a offrire qualcosa di concreto per quanto riguarda il lato software: Mac OS 8 era finalmente realtà, e anche se non mantenne le promesse del tanto pubblicizzato progetto Copland, perlomeno non si trattava di vaporware, ma di un prodotto tangibile e di buona qualità, e l’utenza Mac se n’era accorta e poteva infine dimenticare gli incubi del System 7.5. La ricerca e lo sviluppo stavano continuando dietro le quinte con Rhapsody, che presto si sarebbe trasformato in Mac OS X Server e poi nel Mac OS X “aqua” che tutti conosciamo. Per quanto riguarda lo hardware, l’iMac era ancora un segreto, ma la linea dei Power Macintosh G3 beige si difendeva bene, e il primo PowerBook G3 (che aveva ancora il form factor della linea del PowerBook 5300 e 3400) era in quel momento il computer portatile più veloce in circolazione. Nel settore education, malgrado il recente abbandono della piattaforma Newton, l’eMate 300 stava registrando un certo successo. Anche dal punto di vista commerciale la situazione stava migliorando, sempre grazie alle mosse decisive di Jobs: un numero più ridotto di grossi distributori e l’incoraggiamento dato a un maggior numero di dealer di trattare direttamente con Apple. Senza dimenticare il lancio dell’Apple Store, un servizio online e telefonico per consentire ai clienti di comprare i prodotti Apple in forma semplice e diretta, senza intermediari.

Tutte mosse che si sono rivelate vincenti con il senno di poi, ma che all’epoca necessitavano di un qualcosa di omogeneo, di coesivo, che trasmettesse in maniera generalizzata, forte e profonda questa nuova intrapresa di Apple. Un messaggio che avesse un significato non solo puramente commerciale, ma che potesse essere per Apple anche un segnale della ritrovata identità, coerenza e stima in se stessa. Nasce quindi “Think Different”, una campagna promozionale in grande stile, ben congegnata, ben diffusa attraverso i mass media, ed estremamente pregnante.

Think Different riprende, 14 anni dopo lo spot “1984”, un concetto che è sempre stato centrale dell’identità di Apple: la diversità. Nel famoso “1984”, il Macintosh veniva rappresentato come unico elemento distinto in un mondo anti-utopico di matrice squisitamente orwelliana e dominato dalla dittatura del grigio, del seriale, dell’assenza di individualità. Nello spot, Macintosh assume le forme di un’atleta olimpionica, ed è un concentrato di elementi contrastanti con lo scenario circostante: è donna in una realtà tutta al maschile; è colorato — pantaloncini rossi, maglietta bianca con logo “Picasso” a colori, e la ragazza sfoggia una capigliatura bionda in un mondo di uomini tutti rapati a zero; è in movimento: corre in una realtà statica; pensa con la propria testa in quel contesto di lobotomizzati e si oppone allo status quo tirando un martello contro lo schermo in cui viene proiettato il volto enorme del potere, del Grande Fratello che tutto livella e controlla.

Think Different aggiorna il messaggio: Apple si aggiunge alla schiera di quelle personalità che hanno manifestato il loro genio, Agli anticonformisti, ai ribelli, ai piantagrane, a tutti coloro che vedono le cose in modo diverso. Costoro non amano le regole, spece i regolamenti e non hanno alcun rispetto per lo status quo. Potete citarli, essere in disaccordo con loro; potete glorificarli o denigrarli ma l’unica cosa che non potrete mai fare è ignorarli, perché riescono a cambiare le cose, perchè fanno progredire l’umanità. E mentre qualcuno portebbe definirli folli noi ne vediamo il genio; perchè solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo lo cambiano davvero (così recita il testo dello spot, che nella versione italiana viene raccontato dall’illustre Dario Fo). Nello spot pubblicitario si susseguono immagini di repertorio che presentano personalità come Einstein, Bob Dylan, Martin Luther King, John Lennon, Thomas Edison, Muhammad Ali, Pablo Picasso, Alfred Hitchcock, Martha Graham, e altri che hanno avuto un ruolo fondamentale nei loro rispettivi campi di specializzazione. Personalità scomode, geni forse non del tutto compresi. Con questo messaggio Apple dice di riconoscerne il genio, di essere dalla loro parte perché intrinsecamente è fatta della stessa pasta. Quest’ultimo concetto è il colpo di genio, perché non viene mai espresso esplicitamente: è lo spettatore, il ricevente del messaggio, a chiudere l’equazione.

Nel dossier di MacFormat c’è un breve riquadro dedicato alla campagna, e si chiude con queste parole:

Nel Regno Unito, come negli USA, alla presenza di cartelloni pubblicitari che sottolineano il brand dell’azienda, si aggiungeranno altre promozioni pubblicitarie rilevanti che sfrutteranno il tema del “Think Different”. Che vi piaccia o meno quel che Apple sta facendo, non potrete fare a meno di notare come questo slogan penetrerà progressivamente nella coscienza collettiva — la vostra e soprattutto di coloro che sono nuovi alla piattaforma Apple. Speriamo!

Mai parole furono più vere. Infatti, e qui torniamo ai giorni nostri, sono dell’idea che Think Different abbia avuto fin troppo successo, e un impatto così forte sulla coscienza collettiva da diventare — dopo dieci anni — quasi un’eredità scomoda.

Il fatto è che l’idea ha funzionato talmente bene da vivere ben presto di vita propria, estrapolandosi dal preciso contesto storico in cui nacque, e convertendosi in un’etichetta di identità permanente, in pietra di paragone che, sempre più spesso, viene tirata fuori per giudicare le scelte attuali di Apple. Oggi Apple gode di una salute e di un successo eccellenti, e si trova anni luce avanti rispetto ai tempi che produssero la campagna Think Different. Uno dei fattori chiave del successo sia d’immagine che commerciale è stato indubbiamente il concentrarsi sul mercato consumer, penetrandovi con dispositivi che non sono ‘computer Macintosh’ di per sé (iPod+iTunes Store e iPhone) e che hanno servito e servono da specchietti per le allodole o, in altri termini, da biglietti di ingresso per la piattaforma Mac. Che ha continuato a essere ‘differente’ in questi dieci anni, che ha continuato a evolversi e a distinguersi. Ora Apple si trova a un apice di autostima e confidenza dei propri mezzi che può finalmente permettersi di esaltare il proprio lavoro di manifattura con un video che racconta la progettazione e la realizzazione dei nuovi portatili con monoscocca in alluminio. Per arrivare a questo punto, Apple ha compiuto scelte strategiche atte a soddisfare il pubblico. Una fetta di utenza Apple (i veterani / professionisti, ma non solo loro), che aveva fortemente sentito e riconosciuto quel messaggio, Think Different, e lo aveva associato all’idea di essere diversi, di essere una minoranza, una nicchia forse di incompresi, ma indubbiamente di migliori, ecco, di fronte a questo ‘scendere e mescolarsi tra la folla’, si sentono in dovere di tirar fuori il Think Different come un memento da sbattere in faccia ad Apple ogni volta che prende una decisione o direzione non gradita.

A me il Think Different ha stancato. Nelle discussioni online e offline salta fuori a ogni pié sospinto. Se Apple fa pagare un ricambio troppo caro, “dov’è finito il Think Different?” — se Apple decide di togliere una porta FireWire da un portatile, “e questo sarebbe il Think Different?” — se Apple decide di utilizzare processori Intel dopo anni di rivalità con il noto produttore di chip, “addio Think Different” — se Apple, costretta da scomodi accordi con le major dell’industria dell’intrattenimento, vende contenuti digitali protetti da DRM, “e questo sarebbe il Think Different?” — se Apple… E così via.

È un peccato che il Think Different sia diventato un retaggio quasi scomodo per Apple, almeno per come la vedo io. Perché il fatto è che Apple continua davvero a pensare differente, ma troppi sono rimasti legati al Think Different di dieci anni fa e sembano incapaci di attualizzare il concetto — il che è paradossale perché a posteriori si può notare come la campagna originale del 1998 non fosse legata a nessun prodotto o servizio in particolare. Che Apple stia vivendo un grosso successo di pubblico, di ‘plebe’, non vuol dire che debba per forza essersi snaturata strada facendo. Se Apple non ‘pensasse differente’ non sarebbe dov’è adesso — forse non esisterebbe più, acquisita da qualche altro colosso informatico. Semplificando molto, il percorso di identità aziendale di Apple si divide in tre parti:

  • Negli anni Ottanta Apple era un ‘genio incompreso’ e viveva la situazione con un certo understatement, quella ‘sprezzatura’ che la rendeva affascinante e che ha rinforzato il sentimento di casta dell’utenza Macintosh della prima ora.
  • Negli anni Novanta, con Think Different, Apple manifesta pubblicamente, pubblicitariamente (passatemi il termine), questa sua diversità, questo suo essere genio incompreso, presentando la categoria di personalità geniali e diverse che con la loro visione hanno contribuito a cambiare la storia — e implicitamente inserendosi nel gruppo, mettendosi sullo stesso piano.
  • Negli anni Duemila, Apple raccoglie i frutti della ricrescita, gode di un successo importante e di rinnovata autostima, e può permettersi di manifestare la sua diversità semplicemente facendo parlare i prodotti. La campagna unificante e generica — Get a Mac — può permettersi di essere quietamente ironica e brillante, senza bisogno di grandi dichiarazioni di intenti.

Che cosa è cambiato? Che forse Apple è ormai un ‘genio compreso’, la sua diversità è riconosciuta dal grande pubblico, e premiata perché è sinonimo di maggiore qualità e non è diversità fine a se stessa. Ciò che non è cambiato, checché ne dicano i nostalgici di quel Think Different del 1998, è la parte ‘geniale’ e la visione, che sono sempre nel DNA dell’azienda. Che sia tempo di una campagna nuova? Think Different: Reloaded? Chissà.