Una settimana fa pubblicai alcuni estratti dal recente libro You Are Not a Gadget di Jaron Lanier mutuati dal sito di Mandy Brown, insieme ad alcune osservazioni e note a margine della stessa Brown. Ho cercato di tener fuori la mia voce il più possibile per vedere se l’argomento era sufficientemente forte da stimolare un certo dibattito nei commenti. A parte alcuni volonterosi, mi è sembrato di notare più che altro un atteggiamento di attesa: di una mia opinione, di un po’ più di carne al fuoco. Ho cercato di stendere appunti e considerazioni sui punti sollevati nel post precedente in questi giorni, ma essendo stato colpito da un’improvvisa burrasca lavorativa, non ho prodotto altro che divagazioni, che voglio ugualmente condividere.
La ‘esagerazione’ di Lanier
Nei commenti allo scorso post alcuni facevano notare i toni forse un po’ esagerati del discorso che parte da Lanier. Ripeto, non ho (ancora) avuto modo di leggere il suo libro, quindi le mie sono solo impressioni. Tuttavia ho avuto modo di leggere libri analoghi, ossia testi che analizzano determinati aspetti del presente (da un punto di vista sociologico, psicologico, economico, ecc.) e provano a fare ipotesi per il futuro, a volte in maniera decisamente interrogativa, ossia Date queste premesse, che cosa succederebbe se…? È inevitabile che nella prefigurazione di scenari futuri si finisca con l’essere iperbolici in qualche misura, specie se si vuol tentare di anticipare dei possibili percorsi e i loro sviluppi in un arco temporale che racchiude qualche decennio. Ed è ancor più inevitabile che questo avvenga quando si parla di uomo e tecnologie, visto che i ritmi di un certo tipo di progresso sono tali che si fatica a stare al passo e non è escluso che certe situazioni sfuggano di mano.
Quando si esaminano testi che, in una forma o nell’altra, trattano possibili scenari futuri in tono distopico, c’è sempre un respingente psicologico che si attiva un po’ in tutti. Leggere saggi che parlano dei possibili effetti del riscaldamento globale nel medio-lungo termine, o che sviluppano una serie di ipotesi per il futuro del pianeta considerando che le risorse non sono infinite e che potrebbero presentarsi tempi bui, per esempio, genera immediatamente nel lettore una posizione difensiva: “Sono ipotesi, non è mica detto che vada a finire così”, “Sono certo che se la situazione si fa difficile ce la sapremo cavare”, “L’autore sta esagerando, quelle trasformazioni non possono avvenire così rapidamente”, e così via. Si regisce, insomma, prendendo le distanze da quei futuri, consciamente o no, covando la speranza che non si avverino o che, in qualche modo, siano problemi di chi verrà dopo di noi, di qualcun altro. Quando la reazione è di incredulità, è perché, forse, si sta osservando un’immagine, una possibile istantanea di una situazione che pare irriconoscibile nel presente, e quindi difficile da credere perché non ci si sofferma sui possibili percorsi trasformativi che rappresentano un segmento che unisce il punto A presente con un potenziale punto B futuro. In altre parole, è come se qualcuno ci presentasse un’immagine dei nostri connotati come potrebbero essere fra 30 anni. “Quello non sono io!” è la normale reazione, non importa se l’immagine proviene da un calcolatore che studia l’invecchiamento basandosi sulla nostra cronologia medica e sul nostro stile di vita. Tutto quel che vediamo è un futuro ‘improbabile’ da cui tendiamo a prenderne distanza.
A volte l’esagerazione di un autore nell’ipotizzare un possibile scenario futuro ha un che di voluto: lo scopo è stimolare una discussione, sensibilizzare il pubblico, provare (anche se magari in minor misura) a cercare di piantare dei buoni semi oggi in modo da ottenere piante migliori in futuro, così che si possa scongiurare o alterare in meglio una situazione che potrebbe andare male, un problema che può espandersi se non affrontato.
Sulla figura dell’autore
Con la premessa appena introdotta, torno agli argomenti di Lanier citati dalla Brown. Sulla digitalizzazione delle opere librarie in sé, Lanier non pare esprimersi in maniera negativa (almeno, da quanto si può evincere dall’estratto). D’altronde nessuno nega alcuni specifici vantaggi della fruizione in formato elettronico di un’opera qualsiasi (che sia un romanzo, un saggio, un articolo, una notizia, ecc.). Lanier pone l’accento sul come, sui metodi, sugli approcci. Quando scrive:
L’approccio alla cultura digitale che più aborro potrebbe benissimo trasformare tutti i libri del mondo in un unico libro. … Google e altre aziende stanno scansionando e rendendo disponibili nella ‘nuvola’ i libri delle biblioteche, in un enorme progetto Manhattan di digitalizzazione culturale. Quel che accadrà dopo è cruciale.
si nota la sua critica a un certo approccio alla cultura digitale. Bisognerebbe leggere tutto il libro per comprendere con esattezza quale sia tale approccio, ma provo ugualmente a indovinarlo: la trasformazione dal cartaceo al digitale ‘all’ingrosso’, prodotto di un processo che fagocita autori, culture, autorità delle fonti, qualità delle opere, per creare un qualcosa di totale e amorfo che possa essere facilmente reperito e consumato, sullo sfondo di un (possibile) svilimento della cultura, trasformata dalla digitalizzazione dei contenuti in un qualcosa usa-e-getta, per una società formata da persone che hanno sempre più problemi di attenzione. Problemi di attenzione che sono causati dall’incredibile quantità di informazioni che per lo più subiamo oggi, e che possono fare danni a lungo termine in quanto si può arrivare all’incapacità di processare informazioni in forma diversa da quella digitale liofilizzata che abbiamo oggi sotto gli occhi.
La frase importante è Quel che accadrà dopo è cruciale. Ossia, una volta terminato il processo di digitalizzazione culturale, il momento delicato sarà il ‘come’ fruire del ‘cosa’.
L’identità dell’autore è importante, e a chi sembra impensabile il suo soffocamento, occultazione, sparizione, oblio, a chi sembra esagerata l’ipotesi che si possa arrivare al cosiddetto libro unico, faccio notare come già oggi si possano individuare certi meccanismi in potenza che, se trascurati o affrontati superficialmente, possono portare a scenari magari non identici a quelli ipotizzati da Lanier, ma forse con un certo grado di similitudine.
Un problema è rappresentato dal DRM, dalla gestione dei diritti digitali. Una questione su cui il dibattito non potrebbe essere più diviso. Il fruitore di contenuti tende ad assumere una posizione egoistica e a guardare il DRM in cagnesco, perché pone limiti alla sua libertà di fruizione. Posizione esacerbata da come è stato finora implementato il DRM. Le restrizioni non piacciono a nessuno, nemmeno a me, però al tempo stesso ritengo che sia necessario trovare un sistema che protegga l’autore di una qualsivoglia opera. Ancora di più, ritengo che sia necessario trovare un sistema per educare il fruitore a dare un valore all’opera che acquista e che scarica, e a rispettare il prodotto intellettuale altrui. Dico questo perché, a mio avviso, la possibilità di accedere praticamente a qualsiasi cosa sul Web, attraverso vie legittime ma molto spesso attraverso vie e metodi, uhm, alternativi, porta abbastanza inevitabilmente a uno svilimento culturale. Scendendo nell’esempio concreto: “Voglio vedere il film Tale, dove/come posso scaricarlo?” Spesso basta mettere il titolo del film (magari uscito da appena qualche settimana) seguito dalle parole download o torrent in Google per poterlo vedere sul proprio computer nel giro di pochissimo tempo. Discorso analogo con la musica. Discorso abbastanza simile con i testi (qui lo scaricatore folle potrebbe avere qualche problema in più perché non di tutti i libri esiste — ancora — il file .doc o .pdf).
Questa reperibilità all’ingrosso porta a una mentalità fortemente materialistica e consumistica da parte del pubblico, che svaluta sempre più l’opera intellettuale e il lavoro che vi sta dietro. Per questo oggi tutto deve essere a buon mercato, se non gratis, altrimenti il fruitore non compra e cerca la via alternativa. Questo è il lato oscuro e sgradevole della digitalizzazione culturale: perdendo la connotazione di oggetto tangibile, l’opera perde di valore. Va benissimo comprare un libro in libreria e pagarlo 20 Euro, ma lo stesso libro in versione digitale se costa più di 3 Euro (per dire) è un furto. Rimando, a questo proposito, a un mio vecchio articolo, Un mestiere difficile, in cui riporto l’esperienza e le considerazioni di un autore che due anni fa decise di mettere a disposizione un suo libro in formato elettronico gratuitamente ma con l’opzione di lasciargli una donazione.
Ora, se già oggi l’importante è fruire di qualcosa — anzi, direi quasi che l’importante è ottenerlo nella maniera più rapida e indolore (senza pagare, senza restrizioni) possibile; si accumula prima e poi forse si fruisce. Oggi esistono già tracce che possono minacciare la figura dell’autore e l’importanza della voce individuale. Nel mio piccolo ne sono stato testimone: articoli di autori di cui seguo i blog sono stati presi e copincollati da altri siti senza attribuzione, probabilmente in forma automatica, da robot Web che seguono determinate parole chiave e aggregano contenuti — a volte si tratta di operazioni corrette, con un piccolo estratto e un link alla fonte, a volte sono fotocopie digitali belle e buone, e se uno si imbatte nella fotocopia non sa né chi è l’autore, né dove trovare l’originale.
È capitato anche a me, così come spesso i miei lavori di traduzione, che hanno costato fatica, specie per dare una voce e uno stile a un autore straniero, vengono pubblicati senza attribuzione, come se la traduzione fosse qualcosa ‘curato in casa dall’editore’, come se la mia opera intellettuale fosse di seconda scelta e di minore importanza rispetto al testo originale. Sempre nell’ambito delle traduzioni si fa un ricorso sempre maggiore al crowdsourcing, ossia al lavoro di una massa anonima di ‘operai culturali’ che le imprese possono sottopagare (o non pagare, buttandola sul volontariato e sull’immagine: “Pensate, potrete vantarvi di aver collaborato con noi, Grande Azienda Molto In Vista Del Settore!”). Tutti questi fenomeni contribuiscono all’indebolimento della figura autoriale.
Se già oggi siamo a questo punto, dicevo, quale sarà il prossimo passo? È così ‘esagerato’ e peregrino supporre che in un futuro non lontano al fruitore non importerà nemmeno sapere se ciò che sta leggendo è frutto di un certo autore, se è un anonimo mashup, se è davvero opera di chi sta dietro al sito sul quale lo scritto viene pubblicato, e via dicendo? Bisogna coltivare e curare il senso critico. Ci torno su poco più avanti.
La vita ridotta a un database
Il frammento riportato nel post precedente, in cui Lanier parla dell’influenza negativa che possono esercitare la tecnologia e gli strumenti digitali sull’amicizia e in generale sulle relazioni umane, può sembrare di primo acchito slegato dal discorso sull’autore e sulla cultura, ma ci sono delle somiglianze, specie se tracciamo un parallelo con il discorso di accumulo digitale consumistico a cui alludevo prima. Nell’ottica del social networking molto spesso la grande maggioranza di ‘contatti’, ‘amici’, ‘seguaci’, altro non è che accumulo digitale — un database, appunto. La quantità di contatti che accumuliamo è assolutamente ingestibile se pensassimo di trattarli tutti con eguale importanza e umanità. Sono, appunto, contatti, punti di contatto spesso fugace e superficiale; contatti, non persone. Anche qui c’è un appiattimento verso il basso, perché in questo database di contatti ci ficchiamo persone che conosciamo da vent’anni, compagni di scuola che non vediamo da vent’anni (e con i quali ci illudiamo di ‘rientrare in contatto’ solo perché aggiungiamo il loro profilo al nostro bottino digitale), sconosciuti dei quali magari abbiamo apprezzato uno scritto, un pensiero, uno scambio di vedute, e via dicendo. È una socialità virtuale che di sociale spesso ha ben poco; il sistema è invece assai comodo a livello individualistico perché ben si confà alle nostre ‘vite frenetiche e impegnate’. Rintracciare un vecchio amico, riprendere i contatti e magari la frequentazione costa fatica. Invece vuoi mettere buttare il suo nome in pasto a Google, vedere che nel 95% dei casi il primo risultato è il suo profilo in Facebook o LinkedIn, e aggiungerlo alla lista dei contatti/amici? Fa niente se magari poi nemmeno gli scriviamo una lettera. È lì, nei contatti. Ci si sente un po’ più a posto, come quando si placa un improvviso buco allo stomaco consumando uno snack veloce.
Il senso critico
Uno dei commentatori alla prima parte del post, Giancarlo, scriveva: Probabilmente si parlava male anche quando è stata introdotta la televisione o le enciclopedie su cd o altro. non entro volutamente nei dettagli ma è sempre la solita minestra: c’è uno strumento nuovo e c’è chi lo critica rispetto a quello tradizionale che verrebbe soppiantato… Il coltello può uccidere sicuramente ma non è nato per quello, dipende da come lo utilizziamo. Facebook, Wikipedia, mashup, YouTube sono problemi mondiali fino a quando non scegliamo di spegnere il computer e di leggerci un libro, andare in piazza per trovare gli amici o usare un enciclopedia di carta per le nostre ricerche. Sta a noi.
Giusto, sta a noi. Ma è facile dirlo fra noi che abbiamo (o riteniamo di avere) buonsenso e senso critico. È facile per chi appartiene a una generazione che ha saputo sviluppare relazioni umane prima di Internet saper distinguere fra un rapporto veramente umano, fisico, e un rapporto digitale. Per chi ha assistito alla costruzione del tempio tecnologico (passatemi l’immagine) è più facile saperne distinguere l’interno dall’esterno, saperne vedere i limiti, giudicarlo, saperlo utilizzare. Queste persone vedono il computer e il Web come luoghi da cui passare, per un certo periodo della giornata, e da cui andarsene al termine della visita. Ma esistono sempre più persone che vedono il computer, il Web, e tutta questa tecnologia per comunicare, come luoghi in cui vivere. Non è del tutto ‘colpa’ loro, perché molte di loro sono persone che sono nate e cresciute già dentro il tempio tecnologico, sono persone da sempre circondate da questa tecnologia. Bisogna coltivare e curare il senso critico e stimolare queste persone affinché non diventino strumenti della tecnologia, ma che sappiano sfruttarla al meglio per loro, che sappiano che è uno strumento nelle loro mani e che vi sono modi e modi di usarlo. Che sappiano che non è tutto, che ha dei limiti, che è sempre bene non subirlo passivamente.
Il senso critico è qualcosa che si insegna e non si può sperare che si sviluppi spontaneamente dal nulla o che sia innato. La tecnologia è suadente perché in molte situazioni ci facilita indubbiamente le cose — nel bene e nel male. Adattarsi in queste circostanze è semplice e senza sforzo, quindi il vedere sempre e comunque la tecnologia e la cultura digitale come cose buone e giuste sembra l’inevitabile conseguenza. Quando qualcuno fa notare determinate cose, mette in guardia contro certi abusi che possono avere effetti inattesi, manifesta le sue perplessità nei confronti di un certo servizio online, di una certa tendenza visibile nelle comunità online, è un parruccone luddista, uno non al passo coi tempi, eccetera.
C’è uno strumento nuovo, e c’è chi lo critica — giustamente. Non perché lo strumento sia per forza negativo, nocivo o degradante in sé, ma perché trovo giusto non accettare tutto senza nemmeno porsi il problema o la questione, senza nemmeno soffermarsi a pensare a certi possibili sviluppi, al fatto che non sia tutto rose e fiori sempre e comunque. È qui una delle mie grosse perplessità sui libri elettronici. Ottima la fruibilità, ottima la reperibilità, ottima certa praticità. Ma guardando avanti, che cosa sparirà oltre all’uso della carta? E soprattutto, a qualcuno importerà? Occorre alimentare il dibattito e il senso critico affinché perlomeno si abbia coscienza di certi processi trasformativi, e che passi il concetto per cui non dobbiamo subire ogni ‘progresso’ tecnologico solo perché fa comodo a tanti o perché viene pubblicizzato con astuzia. Insomma, uno strumento non è né buono né cattivo in sé, dipende dall’uso che se ne fa. Ma occorre insegnare tale uso affinché sia fatto con criterio, sapendo distinguere il buon uso dal cattivo uso (qualità), e il buon uso dall’abuso (quantità). Con questo mio blog cerco, fra le altre cose, di stimolare questo genere di riflessioni, perché lo ritengo molto importante.