La lunga pausa di silenzio è stata tutt’altro che intenzionale o programmata, e ha colto di sorpresa il sottoscritto tanto quanto voi (la manciata di lettori che passano regolarmente di qui).
In estrema sintesi, ho passato questo periodo ricoverato in ospedale. Diagnosi: epatite acuta dovuta a intossicazione da antibiotico. Il colpevole non ha nemmeno un nome facile da ricordare: Trimetoprim-Sulfametoxazol, ma me lo sono segnato molto bene perché, hanno detto i dottori, la prossima volta che dovessi assumere un medicinale contenente le succitate sostanze, la seconda epatite potrebbe essere peggiore della prima. Non ci sarà una prossima volta.
Ogni tanto le circostanze agiscono in una tale maniera che pare vogliano farci sapere quanto poco in realtà sia il nostro controllo.
Tutto inizia il 18 aprile. Dopo cena non mi sento bene e accuso quelli che credo essere semplici crampi allo stomaco. Può capitare, ogni tanto soffro di aerofagia. Ma stavolta la crisi perdura e i crampi si estendono a tutto l’addome. Li sento persino nella schiena e la notte non riesco a dormire. I dolori proseguono per qualche giorno. Il medico della mutua, che mentre ‘ascoltava’ la cronaca dei miei mali non staccava gli occhi dal suo PC e continuava a stampare moduli (ho capito poi che stava già stampando le ricette delle medicine che mi avrebbe prescritto prima ancora di visitarmi), lo ha ritenuto un brutto caso di aerofagia e mi ha prescritto un farmaco per proteggere lo stomaco più un antispasmodico. Inizio ad assumere quei farmaci e le cose sembrano calmarsi. “Ogni tanto i medici della mutua ci vedono giusto”, ho pensato con ironia. Nei giorni seguenti ho ancora qualche difficoltà a mangiare normalmente, e se non voglio star male dopo i pasti, devo restringere la mia dieta a zuppe vegetali, brodini, riso e pesce. “Made in Japan”, cerco sempre di pensare con ironia.
Ma nel frattempo ho male alla gola, e a volte la voce se ne va mentre parlo. Una sensazione fastidiosa, come avere una spina nella faringe. Stanco di schiarirmi la gola ogni cinque minuti, mi reco in una farmacia vicino a casa con mia moglie, spiego dettagliatamente come mi sento e il farmacista senza esitare mi incarta un antibiotico. Il maledetto antibiotico. “Una capsula la mattina, una alla sera”.
Dopo due giorni la gola sta effettivamente meglio, ma comincia un fastidioso prurito in tutto il corpo. Il fenomeno è particolarmente intenso durante la notte. Le ore di sonno diminuiscono radicalmente. Anche l’ironia se ne va. Il primo pensiero è che il cocktail di medicine che sto assumendo abbia scatenato una reazione allergica (perché infatti stavo ancora prendendo i farmaci per lo stomaco), allora mi metto a leggere i foglietti illustrativi da cima a fondo. Due dei tre farmaci riportano il prurito come possibile effetto secondario. Allora comincio a smettere di prenderne uno, poi l’altro, poi, nel giro di due-tre giorni, smetto completamente di prendere alcunché.
Nota a margine: non amo prendere medicinali. In genere cerco di resistere fino a quando non è proprio indispensabile. In questa specifica circostanza stavo davvero male e non vedevo cos’altro fare.
Tornando alla mia vicenda, smetto di prendere medicine ma il prurito non passa. Si attenua un poco, ma non se ne va. Intanto arriviamo al primo maggio, e io ho tutta l’intenzione di usare il foglio che mi aveva dato il medico della mutua per prendere appuntamento con uno specialista di medicina digestiva. Pare che non dovrò aspettare molto, perché le cose accelerano il pomeriggio del 2 maggio, quando guardandomi allo specchio noto che la mia pelle e i miei occhi hanno iniziato ad assumere una simpatica colorazione gialla. Come insegna la cultura pop di serie televisive quali E.R. e House, MD, se compare l’ittero, il fegato non sta bene. (In realtà lo sapevo dai tempi in cui, ragazzino, leggevo l’Enciclopedia Medica Curcio del nonno).
Il 3 maggio mattina vado al pronto soccorso e, dopo molte ore di attesa, un’analisi di sangue e urina, una radiografia al torace e un’ecografia all’addome, decidono di ricoverarmi. Durante l’ecografia scoprono la presenza di calcoli nella cistifellea. La ciliegina sulla torta.
Sin dalle prime analisi, i dottori scartano la possibilità di epatite virale: i test sono negativi e le transaminasi normali. Non sono presenti sintomi quali spossatezza, vomito o febbre (mi sento in forze e generalmente “bene”). Però sono itterico (giallo), e le ipotesi si restringono a due: o il mio fegato ha cominciato a secernere bilirubina come reazione acuta a qualcosa (cibo avariato in questo caso no, quindi può essere un farmaco), oppure, dato che l’ecografia mostrava calcoli nella cistifellea, può essere che un calcolo si sia mosso, causandomi quei forti dolori che pensavo fossero di stomaco (in realtà una colica biliare), e abbia ostruito il dotto che porta la bile dal fegato e dalla cistifellea all’intestino. Ma per vedere meglio com’è la situazione laggiù è necessaria una risonanza magnetica.
Intanto i giorni in ospedale passano, tutti mostruosamente uguali, tutti scanditi dai ritmi imposti dal personale, dal sapore orrendo dei farmaci che mi tocca prendere, e dal menu che devo mangiare. In tutta onestà, la cucina non è male, ma dato che la mia dieta deve essere “di protezione bilo-pancreatica”, la scelta di alimenti è ristretta e mi ritrovo a mangiare mele cotte, zuppe di verdure senza sale e merluzzo lessato con una frequenza che mai in vita mia. I medici, a onor del vero, sono scrupolosi e mi tengono sotto controllo. Prima di sbilanciarsi in una diagnosi e in un trattamento definitivi, vogliono coprire tutte le basi. La risonanza magnetica è negativa, ossia non ci sono calcoli a ostruire nessun dotto, né rigonfiamienti o stress del dotto biliare che fanno sospettare altre insidie. (La risonanza però rivela la presenza di svariati calcoli piuttosto grossi nella cistifellea, e i dottori mi consigliano di farmi operare più in là e di far asportare la cistifellea del tutto). Rimane quindi l’ipotesi dell’epatite da intossicazione da farmaco. Iniziano il trattamento e tutti speriamo che la bilirubina cominci a scendere. La bilirubina non pare abbia voglia di farlo; dopo l’ennesimo prelievo di 6 fiale di sangue, i valori sono stazionari; del resto il trattamento è appena iniziato. Per precauzione i dottori prenoterebbero (sempre se io sono d’accordo) una biopsia epatica.
Piccolo passo indietro: quando ho cominciato a vedere i giorni andarsene uno a uno, senza una minima idea di quando sarei stato dimesso, mi sono preoccupato moltissimo per il mio lavoro. Come per tutti i freelance, la malattia ruba giorni al lavoro e nessuno paga i giorni di malattia. E io non posso permettermi di perdere lavori, e quindi clienti. Immaginate dunque la mia frustrazione: in buone condizioni fisiche e mentali, sufficientemente buone per lavorare, ed essere costretto in ospedale ad aspettare pazientemente gli esiti delle varie analisi. Mia moglie mi ha portato il PowerBook e ho cercato di combinare qualcosa, anche se tutti i fattori ambientali giocavano contro di me: scomodità della ‘postazione’, il fatto di non essere in una stanza singola, quindi distratto dai familiari e amici che venivano a trovare i compagni di stanza che si sono susseguiti durante la mia degenza, i ritmi stessi dell’ospedale, con infermieri che vanno e vengono, ti provano la pressione, ti danno il termometro per provarti la febbre, e al mattino il personale di pulizia che letteralmente irrompe nelle stanze alle 8, alzando tapparelle e iniziando rumorosamente a pulire stanza e bagno; poi le cose si calmano mezz’ora, poi arrivano gli infermieri a rifare i letti e ti devi alzare; poi, se è giorno di analisi, alle 9 arriva un’infermiera attempata, almeno lei educata e gentile, che ti punzecchia e dissangua, ma sempre gentilmente. Poi, in un orario imprecisato che può andare dalle 9:30 alle 11, passano i dottori per il loro giro. E questo è solo quel che succede al mattino. Figurarsi lavorare serenamente in tale contesto. Senza contare la totale assenza di una qualsivoglia rete wireless libera che mi aiutasse a rimanere in contatto, se non con il mondo, almeno con i clienti. (Le mie passeggiate esplorative per piani e corridoi dell’Hospital Clinico Universitario di Valencia armato di iPod touch farebbero storia a sé: immaginatevi un paziente ‘rabdomante’ con pigiamone ospedaliero e carnagione giallastra… e immaginate le facce della gente che incrociavo sul mio cammino).
Ora, quando i dottori mi hanno annunciato la biopsia al fegato, mi sono sentito a terra, perché la biopsia era in data da destinarsi, e io avrei dovuto rimanere ricoverato almeno fino a quella data. Questo avveniva il 13 maggio, con un lavoro da consegnare il 19. Certo, la salute innanzitutto, quindi ovviamente ho acconsentito alla biopsia, sperando in cuor mio che la situazione lavorativa si risolvesse. Fortunatamente, dopo i risultati dell’ennesimo prelievo sanguigno, i valori di bilirubina sono scesi, così come è diminuito il prurito e l’ittero, segno che il trattamento stava facendo effetto. La biopsia era schedulata per il 19 maggio, ieri, ma i medici, vedendo il buon corso delle cose, e comprendendo la mia situazione lavorativa, mi hanno dimesso venerdì 16, con l’ordine di ritornare lunedì 19 mattina per la biopsia. Dopo la biopsia e ventiquattro lunghe ore costretto a letto a riposo, eccomi a casa. Il 3 giugno tornerò in ospedale per gli esiti della biopsia.
Non sono ancora al 100% (la biopsia e quasi 24 ore di digiuno mi hanno lasciato un po’ debole), e sono ancora convalescente. Sono immerso nel lavoro e ho centinaia di email e di altre cose da leggere, ma sto decisamente meglio di 30 giorni fa. Mi scuso per essermi dilungato con un post così personale, ma mi andava di raccontare la mia esperienza. E in tutta questa vicenda ringrazio pubblicamente l’amico Lucio, che è davvero apparso — come il buon amico proverbialmente dovrebbe fare — nel momento del bisogno.
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