Casual Podcast
In passato mi è capitato di far presente come oggi sia difficile mettersi a seguire costantemente i podcast. Ne vengono prodotti sempre di più, ve ne sono di ogni genere e formato, c’è il grande imbarazzo della scelta, e la quantità finisce col soffocare (o meglio nascondere) la qualità. Praticamente tutti gli autori che seguo, sia in inglese che in italiano, ne producono uno o intervengono frequentemente in altri podcast prodotti da conoscenti e amici della loro cerchia. Ne seguo alcuni, ma anche dei miei preferiti non riesco materialmente a star dietro a tutte le puntate. Il podcast è qualcosa che richiede attenzione, e quando decido di ascoltarne uno per me è difficile fare altro. Devo quindi trovare le condizioni giuste per potervi dedicare tempo e spazio.
Fra le produzioni italiane, ho sempre avuto una particolare simpatia per la rete Easy Podcast curata e condotta da un ristretto gruppo di persone in gamba. Quando mi è stato chiesto se volessi partecipare a Casual con Federico Travaini e Diego Petrucci, ho dunque accettato volentieri e potete ascoltarmi nella terza puntata del podcast.
Una bella chiacchierata
Travaini e Petrucci sono riusciti a riportarmi ‘in onda’ a vent’anni di distanza dai tempi in cui (udite udite) conducevo una trasmissione radiofonica dedicata al rock Anni Settanta e co-conducevo un talk show notturno in una radio privata. Risentendomi dopo la registrazione ho notato come fossi un po’ arrugginito rispetto ai tempi della radio, quando la mia parlata era più scattante e vivace. Va anche detto che in radio c’era tutta una preparazione pre-onda, con appunti e memo sempre sott’occhio. Il bello del podcast è la chiacchiera spontanea e improvvisata, e sovente si costruisce un discorso al momento, senza sapere bene dove si andrà a parare. Mi si perdonerà perciò qualche Uhmmm di troppo nei miei interventi.
Riascoltando il podcast oggi, mi sono reso conto di aver tralasciato alcune cose, e colgo l’occasione per aggiungerle qui, a mo’ di appendice alla puntata.
Analogico e digitale
Con Federico e Diego — che sono ottimi moderatori perché offrono molto spazio all’ospite di ogni puntata — si è parlato di analogico e digitale sulla scia dell’articolo di Diego e della mia risposta al suo articolo, cercando di estendere e approfondire ulteriormente il discorso. Un elemento importante che ho dimenticato di menzionare è il Newton, il PDA prodotto da Apple nel periodo 1993–1998, considerato comunemente un dispositivo ambizioso ma di scarso successo, forse perché troppo avanzato per l’epoca, forse perché troppo caro, o geniale ma limitato… ogni opinionista tecnologico dice un po’ la sua a riguardo. Ebbene, pur essendo un dispositivo ‘obsoleto’, ne sono costante utilizzatore da più di dieci anni. È opinione comune che una delle ragioni del suo fallimento sia stato il mediocre sistema di riconoscimento della scrittura. Questo poteva essere vero in parte con la prima versione del sistema operativo Newton OS, ma in Newton OS 2.x il motore di riconoscimento della scrittura è decisamente un’altra cosa, e con un po’ di pratica e pazienza si riesce a scrivere (in inglese, in special modo) sul Newton a una velocità quasi simile a quella con cui si scriverebbe su carta con una normale penna biro.
Pratica e pazienza hanno fatto in modo di trasformare il Newton in uno strumento che uso con molta frequenza. E il prendere appunti sul Newton è per me il punto d’incontro importante fra analogico e digitale. Da un lato c’è la naturalezza del processo: si scrive su Newton come su un blocco note di carta utilizzando il suo stilo. Dall’altro la scrittura viene riconosciuta e digitalizzata (se si è di fretta si può istruire il Newton a lasciare sullo schermo ciò che scriviamo, per poi tradurlo più avanti), e successivamente è possibile trasferire le note sul computer come semplici file di testo. Approccio analogico e conservazione/trasformazione in digitale. Il Newton non ha le capacità di sincronizzazione di un iPhone o iPad o simili telefoni e tablet attuali (lo si può collegare a Internet, volendo, ma ci si scontra con tutte le limitazioni imposte da una tecnologia sviluppata quando il Web era agli albori), ma è un dispositivo che ha un’autonomia della batteria ancora invidiabile, e soprattutto buona memoria: in dieci anni e passa, non ho perso neanche una parola archiviata nella sua memoria interna o nelle schede PCMCIA con esso compatibili. Non c’è nemmeno un comando di salvataggio: la memoria è persistente, e tutto quel che viene inserito è subito archiviato (cosa che abbiamo raggiunto in Mac OS X solo in tempi relativamente recenti). Il Newton già negli anni Novanta era un dispositivo instant on. Scrivi, modifichi, inserisci un dato, spegni il dispositivo, poi lo riaccendi e ti ritrovi nel punto preciso in cui ti eri fermato.
Siri, i dispositivi indossabili, l’interfaccia del futuro
Sulla scia delle considerazioni fatte con Federico e Diego, oggi ho voluto cimentarmi con Siri in una sessione cercando di andare al di là di alcuni scambi semplici ed essenziali. Ho provato con Siri in inglese britannico (che sul mio iPad è l’impostazione di default), poi in italiano e in spagnolo. L’ho trovato senz’altro migliorato rispetto a iOS 6, ma alla fine dei miei test del tutto informali non ho potuto non notare quello che ritengo essere il problema di fondo: l’inaffidabilità. Certe richieste, sia generiche che più specifiche/articolate, venivano comprese (molto bene in qualche raro caso), ma si alternavano a svarioni colossali e dagli effetti collaterali imprevedibili. In certi casi ripetere la richiesta sortiva l’effetto sperato, altre volte la situazione peggiorava. In certi casi ripetere l’ordine scandendo-bene-le-parole o avvicinandosi di più al microfono dell’iPad aiutava, in altri Siri sembrava capire ancora meno di prima.
In sostanza: la tecnologia è ancora acerba ed è inaffidabile perché deve far fronte a centinaia di variabili: velocità del parlato, intonazione, influenze dialettali, rumore di fondo, e altro ancora. Alcuni sono convinti che questo modo di interfacciarsi con le macchine sia il futuro prossimo. Io per ora sono dell’idea che la tastiera non scomparirà tanto presto. Come dicevo nel podcast, l’ideale da raggiungere è quello in cui la macchina possa comprendere i comandi impartiti da una persona, con rapidità e al tempo stesso con il minor margine di errore possibile. L’interazione verbale deve avere dei vantaggi pratici rispetto alle metodologie di input correnti, altrimenti l’utente si frustra, diventa impaziente e ricorre a metodi alternativi, magari persino antiquati, per arrivare allo scopo prefissato.
Un ipotetico dispositivo indossabile che si basasse su questo tipo di interazione avrà un successo proporzionale al livello di raffinatezza di tale interfaccia. Quando Tim Cook è intervenuto sull’argomento alla Conferenza D11 di All Things Digital, ha detto che l’intero settore dei sensori è destinato a esplodere. Ciò che ho ricavato da questa osservazione è che forse una funzione di grande utilità e interesse in un dispositivo indossabile non si basi tanto sull’interazione soggetto-dispositivo, quanto sulla capacità del dispositivo di raccogliere una serie di dati per proprio conto, che possano tornare utili a chi lo indossa, una sorta di micro-assistente che impara a ‘conoscerci’ perché lo portiamo indosso per la maggior parte del tempo, e che quindi possa fornire informazioni aggiornate in ogni momento e sensibili al contesto.
Esempio banalissimo: il dispositivo, una volta autorizzato, si sincronizza periodicamente con il nostro iPhone, o tablet, o qualsiasi altro dispositivo autorizzato; si sincronizza in maniera invisibile, in background, e sa che abbiamo in agenda un viaggio in Irlanda alla fine della prossima settimana. A quel punto, uno o due giorni prima di partire comincia a mostrarci tutte le informazioni meteorologiche su Dublino relative al periodo della nostra permanenza, nonché eventuali notizie legate al viaggio (si prevedono ritardi o scioperi negli aeroporti?). Il giorno della partenza potrebbe suonare un allarme ricordandoci che è meglio sbrigarsi perché c’è traffico intenso e se andiamo in taxi all’aeroporto il tragitto potrebbe essere più lungo del previsto. Tutto questo senza che l’utente solleciti nulla. Se il dispositivo è al polso, lo si guarderà di tanto in tanto, con la stessa naturalezza con cui oggi guardiamo l’orologio per sapere che ora è. Se Apple producesse un aggeggio del genere, potrei quasi farci un pensierino…
Il mio libro di racconti brevi, Minigrooves
Si è accennato al libro giusto in chiusura di podcast, e mi sono dimenticato di specificare che si tratta di racconti scritti in lingua inglese. Se sapete l’inglese, avete un iPad, vi piacciono i racconti brevi e vi va di supportare la mia scrittura, acquistatelo. Per maggiori informazioni, ho dedicato un articolo a riguardo, e se avete domande o desiderate ulteriori chiarimenti, non esitate a scrivermi o a contattarmi su Twitter o App.Net (sono @morrick su entrambe le reti). Come dicevo, per ora è disponibile esclusivamente per iPad, ma sto preparando una versione ePub per Kindle e simili lettori che supportano tale formato.
Per finire, ringrazio nuovamente Federico Travaini e Diego Petrucci per la gentilezza e l’ospitalità.