Con la tastiera supplente

Mele e appunti

Ieri le pile della mia Apple Wireless Keyboard si sono scaricate definitivamente. In questa tastiera e nel Mighty Mouse solitamente uso delle pile NiMH ricaricabili da 2300–2500 mAh, e tengo delle alcaline di scorta che butto dentro mentre le ricaricabili si ricaricano. Stavolta, non avendo alcaline sottomano, e dato che ormai la vecchia Apple USB Keyboard del defunto iMac G3 è permanentemente collegata al PowerMac G4 Cube, ho deciso di optare per una soluzione alternativa: riesumare la ancor più vecchia Apple Extended Keyboard II e collegarla al PowerBook G4 mediante quella piccola grande cosa che è il Griffin iMate, un adattatore ADB-USB per collegare appunto le vecchie periferiche ADB (tastiere, mouse, trackball, tavolette grafiche…) ai Mac più moderni attraverso la porta USB.

Un excursus sull’iMate — Avevo adocchiato questo oggettino qualche anno fa a Milano, ma il prezzo era allora piuttosto alto (sui 60 Euro) e avevo appena sborsato un centinaio di Euro per il Keyspan Twin Serial Adapter (che permette di avere due vecchie porte seriali Mini-DIN8 sui Mac più moderni per esempio per collegarci vecchie stampanti StyleWriter o LaserWriter, o il Newton), per cui decisi di lasciar perdere. Avanti veloce fino al mese scorso, quando di passaggio alla FNAC di Valencia ne vidi un paio in offerta a 29 Euro, ma ero di fretta e mi ripromisi di tornare dopo il finesettimana per acquistarne uno. Ovviamente, di ritorno il lunedì successivo, i due iMate erano spariti. Mi son detto: diamo un’occhiata online. Sul sito di Griffin, se andate alla pagina dell’iMate, potete vedere che il prezzo non è poi tanto male: 39 dollari al cambio attuale sono meno di 17 Euro. Il problema è che arrivando in fondo alla procedura di acquisto si scopre che Griffin spedisce fuori dagli USA con corriere UPS e i costi di spedizione superano i 70 dollari, che aggiunti ai 39 del prodotto fanno circa 110 dollari (47 Euro). Lascio perdere Griffin e passo a eBay, dove trovo un negozio in Spagna che mi invierebbe un iMate per 27 Euro spese di spedizione incluse. “Bene”, mi son detto, “domani lo compro”. Quel giorno stesso ripasso dalla FNAC e con mia grande sorpresa vedo che in un cesto con dei prodotti di informatica in offerta c’è proprio un iMate a 7,95 Euro, forse l’ultimo fondo di magazzino. Lo prendo al volo, vado a pagarlo e — altra sorpresa — la cassa applica un ulteriore sconto al prodotto (leggendo lo scontrino sembrerebbe si tratti di punti non spesi sulla mia tessera socio) e mi porto via l’iMate per 0,79 Euro. Sul retro della confezione c’è ancora l’etichetta col prezzo originale, 52,90 Euro. Pazzesco. Per una volta mi è andata bene.

Tornando alla tastiera… Non la ricordavo così buona. Mi ero subito abituato alla Apple USB Keyboard dell’iMac G3 prima e alla wireless poi, e le avevo trovate entrambe discrete. Il primo amore non si scorda mai, e in questo caso si trattava di una tastiera per PC, totalmente meccanica, che mi era stata venduta insieme al primo PC 386 assemblato. Il ritorno dei tasti era eccezionale, e il rumore paragonabile a una macchina da scrivere manuale (la mia Olivetti ETP 56 era più silenziosa), ma permetteva una velocità e una precisione formidabili, e il feeling sotto le dita senza paragone. Passando a Mac, le due tastiere su cui misi di più le mani furono la Apple Keyboard II e la Apple Design Keyboard, che erano discrete, un po’ più silenziose, ma il ritorno dei tasti era meno scattante, per così dire, e bisognava battere i tasti con più forza; questo naturalmente finiva con l’incidere sulla velocità e notavo anche un maggior numero di errori di battitura.

Beh, è da ieri che sto scrivendo con la Extended Keyboard II ed è un altro pianeta rispetto alle altre, forse a tutte le altre tastiere Apple. I tasti sono al tempo stesso morbidi e scattanti, per cui la tastiera non è rumorosa come una IBM ma non è nemmeno ‘affogata’ come altre tastiere ADB e USB Apple. Se non fosse per il layout leggermente diverso (ormai sono abituato al cosiddetto Italiano Pro, che è QWERTY e non QZERTY e non è necessario premere Shift per ottenere i numeri della fila superiore di tasti) e per la comodità del Bluetooth, che mi libera la porta USB, probabilmente rimarrei con questa tastiera. Potrei acquistare un hub USB ma ci sono già troppi cavi e troppi accrocchi sulla mia scrivania — per un hub USB non c’è spazio.

Le tastiere peggiori che ho utilizzato su macchine Apple sono quella del PowerBook Duo 280, e in minor misura quella del PowerBook 5300, la prima troppo dura e ‘impastata’, la seconda usabile, ma con uno strano ritorno dei tasti, che la fa sentire fragile sotto le mani. Sempre stando sui portatili, l’esperienza migliore è con quella del mio iBook G3 clamshell ultima serie (466 MHz special edition con porta FireWire) su cui si scrive che è un piacere, e credo aiuti molto il design stesso dell’iBook, che permette un appoggio perfetto dei polsi e si è in grado di scrivere molto bene anche tenendo l’iBook sulle ginocchia.

In genere mi abituo facilmente a nuove tastiere, e non ho notato grossi problemi utilizzando quella dei PowerBook G4 Titanium e Aluminium, e nemmeno le nuove tastiere piatte in alluminio (sia USB che wireless), ma tornare alla vecchia Extended Keyboard è stata una piccola rivelazione. Se penso che l’avevo quasi sempre snobbata per le maggiori dimensioni e il peso (è senza dubbio una delle tastiere Apple più ‘importanti’ in questo senso).

Qual è la vostra tastiera preferita? Non dev’essere necessariamente Apple; sarebbe interessante fare confronti e scambiarsi opinioni.

Ah, e per chi non riesce a staccare le mani dalla tastiera, segnalo Keyboardr, un sito che aiuterà sicuramente con le ricerche in rete… senza usare mouse o trackpad. (Piacerà a Lucio di sicuro).

Il sistema operativo che vorrei

Mele e appunti

Premessa

Questo post nasce da una riflessione scaturita da una serie di osservazioni recenti, tutte relative all’interazione utente-dispositivo, dove ‘dispositivo’ può essere di tutto — da un telefono, a un software, a un computer, a un sistema operativo. Leggevo l’altro giorno dei difetti del nuovo BlackBerry Storm evidenziati da David Pogue; poi mi è capitato di aiutare mia moglie (che si ostina a usare PC) a risolvere una situazione frustrante su Vista (un sito in Firefox richiedeva l’installazione di un plug-in di Java, e proponeva un download diretto; Vista ha iniziato a protestare visualizzando una finestra di dialogo “Questa versione di Java potrebbe essere anteriore a quella già installata nel sistema” — cercando di chiudere la finestra se ne apriva un’altra e così via, e la povera Carmen si ritrovava con 24 finestre di errore identiche e sovrapposte. Abbiamo dovuto chiudere forzatamente quasi tutto usando l’equivalente Windows di Monitoraggio Attività); poi, nei miei tentativi di installare NEXTSTEP 3.3 prima su una macchina virtuale in Virtual PC 7, poi su un PC vero, non ho potuto fare a meno di notare la complessità dell’intera procedura di installazione. Ieri notte, infine, leggevo questo post dell’amico Lucio. Volevo commentare direttamente, perché con queste premesse mi ritrovavo particolarmente ispirato. Ma visto che quando un argomento è gustoso io faccio fatica a essere sintetico, ho pensato di estendere la riflessione in questa sede.

Nel post su Ping! Lucio propone due alternative ‘ipotesi di lavoro’ per l’evoluzione di Mac OS X:

Mac OS X dovrebbe evolversi verso un enorme sistema che ingloba quanto più può in termini di funzioni, per accontentare il maggior numero di utenti da subito dopo l’installazione, oppure un software snello ed essenziale che ognuno è libero di arricchire e personalizzare come può utilizzando ciò che offre la piazza software?

Ecco, io vorrei che il futuro sistema operativo, qualunque esso sia (ma chiaramente preferirei si trattasse di Mac OS X), sia una somma di queste due alternative. Vorrei che fosse fondamentalmente trasparente e modulare.

La trasparenza

I sistemi operativi attuali a mio avviso soffrono tutti, in varia misura, di un problema radicale: sono troppo presenti, troppo in faccia all’utente, troppo egocentrici. Un sistema operativo evoluto deve essere trasparente. Deve togliersi di mezzo quanto più possibile e lasciare che l’utente si concentri su quel che sta facendo o che deve fare. Questo vale per il sistema operativo e naturalmente per i software da utilizzare. Mi ha particolarmente colpito una recente osservazione di Rands: Quando sto usando Word, continuo a vedere Word, e non quel che dovrei vedere, ossia ciò che sto scrivendo. Che è verissimo, direi addirittura che vale per l’intera piattaforma Microsoft Windows. Questo non accade se il software (e l’intero sistema operativo) è progettato per essere trasparente. Sono sempre stato un sostenitore delle soluzioni incentrate sui documenti, non sulle applicazioni (vedi come funziona il Newton, o come avrebbe dovuto essere l’architettura OpenDoc, o come funzionava il Lisa). Nel mio sistema operativo ideale, che dovrebbe preoccuparsi dell’utente e non del proprio ombelico, l’utente non dovrebbe porsi il problema di quale software utilizzare per eseguire il tal compito, ma concentrarsi sul compito: sarà il sistema operativo a fornire gli strumenti.

Trasparente non vuol dire invisibile. Trasparente non vuol dire occultare informazioni utili all’utente. È chiaro che per ragioni di sicurezza, se occorre installare software che richiedono permessi di amministratore, il sistema operativo dovrà darne notifica e lasciare la decisione all’utente. Esprimendosi però sempre in un linguaggio accessibile. E, soprattutto, evitando di proporre all’utente delle alternative potenzialmente disorientanti e foriere di disastri. Quel messaggio che Windows Vista ha visualizzato al centro dello schermo del portatile di mia moglie è oscuro, non aiuta a risolvere la situazione, e non permette all’utente di decidere nulla, malgrado proponga le opzioni di ‘Accettare’, ‘Ignorare’, ‘Annullare’. Che cosa significa che “Questa versione di Java potrebbe essere anteriore a quella installata nel sistema”? L’obiezione che sorge spontanea davanti a un tale messaggio è Se non lo sa il sistema operativo, dovrei forse saperlo io? E, aggiungo, se il sito propone di installare Java, non è che per caso manca qualche componente? Che poi sto dando per scontato che l’utente sappia anzitutto che cosa sia Java. Un sistema operativo intelligente e trasparente non mette il malcapitato utilizzatore in un tale ginepraio, ma installa le componenti necessarie a visualizzare i contenuti, facendo le verifiche necessarie della bontà e sicurezza del plug-in in background e al limite notificando all’utente l’operazione in corso. Se il sistema incontra un elemento che richiede il permesso dell’utente, che lo richieda, formulando la richiesta in un linguaggio il più possibile chiaro e corretto.

Tutta l’attività del sistema deve essere tracciata e tracciabile, dando all’utente la possibilità di tornare indietro se necessario. Anche qui, occorre rifondare il linguaggio dei sistemi operativi. Andate in Console e osservate il contenuto di system.log e ditemi che cosa e quanto capite di quel che sta scritto. Nel sistema operativo che vorrei, ci dovrebbe essere un elemento cliccabile chiamato Attività sul piano di lavoro. Aprendolo, ci sarebbero scritte cose del genere:

  • 28 nov 2008 — 07:43 — Avvio del computer.
  • 28 nov 2008 — 07:43 — Caricamento del sistema operativo.

[…]

  • 28 nov 2008 — 11:10 — Documento di testo “Lettera ad Apple” spostato nella cartella “Posta da inviare”.
  • 28 nov 2008 — 11:14 — Documento immagine “Welcome to Macintosh.png” scaricato dal sito “Wallpapers.com” e archiviato nella cartella “Download”.

Se un’azione è annullabile, a lato comparirà un pulsante che permetterà di tornare indietro indefinitamente, una sorta di Time Machine esteso a tutto il sistema. Nell’esempio sopra, le prime due entrate non sono ovviamente modificabili, le seconde sì. Si potrebbe valutare l’opzione di visualizzare un resoconto in modalità esperta, che se attivata visualizzi entrate come:

  • 28 nov 2008 — 13:03 — L’applicazione “Photoshop CS7” ha causato un conflitto con una componente della scheda grafica. [Maggiori informazioni] [Segnalare il problema]

Premendo “Maggiori informazioni” il sistema fornirà un elenco dettagliato del problema, comprensibile dagli addetti ai lavori, così che se l’utente è un programmatore o non è uno sprovveduto, possa avere un’idea più precisa di quel che è capitato.

In ogni caso, il nocciolo è comunicare in maniera il più possibile chiara e priva di ambiguità, indipendentemente dal livello di conoscenze dell’utente.

Sempre per parafrasare Rands, un sistema operativo dovrebbe essere intelligente in modo da potermi permettere di essere stupido. In questo senso, Apple mi dà certamente più speranze della concorrenza. Per esempio, un dettaglio che mi è sempre piaciuto dell’iPod prima e dell’iPhone adesso è il fatto che non sia necessario sapere dove sono archiviati i file, le applicazioni, i video e la musica su questi dispositivi. So che ci sono, li vedo, ne ho un accesso istantaneo. Vorrei un sistema operativo per computer che abbia questo tipo di trasparenza. Che non sia necessario sapere in quale sottolivello si trova la directory tale o la cartella talaltra. Il sistema avrà la sua area protetta per evitare che l’utente ci metta le zampe facendo sfracelli. Poi vi sarà un’area per l’utente in cui mettere tutto ciò che si vuole. Le gerarchie e i livelli esisteranno sempre, ma con un potente sistema di ricerca a tutto campo (immaginate uno Spotlight davvero ben fatto) l’utente avrà sempre meno l’esigenza di esplorare in verticale, per così dire.

Insomma, in un sistema operativo davvero trasparente, quando sto davanti al computer vedo il mio lavoro, non quello di altri.

La modularità

Oggi in tutti i sistemi operativi è assai facile installare nuove componenti, nuovo software di sistema e di terze parti, nuovi aggiornamenti, e così via. Spessissimo tutti questi software creano cartelle e file di impostazioni e preferenze in uno o più luoghi all’interno del sistema. L’utente è abbastanza ignaro di questi movimenti dietro le quinte, e la cosa andrebbe anche bene così, se non fosse che quando si vuole togliere del software, l’operazione non è così facile e trasparente. E si finisce con l’avere file sparsi in vari punti del disco rigido, spesso dai nomi astrusi e poco descrittivi, che l’utente dovrebbe eliminare a mano, sperando di eliminare i file corretti e sperando di eliminare tutto quanto era associato all’Applicazione XYZ.

In un sistema operativo veramente modulare, le cose funzionerebbero diversamente. Per prima cosa, all’atto dell’installazione del sistema stesso, l’utente dovrebbe trovarsi di fronte un menu ben congegnato, semplice da leggere e da comprendere, che presenti una serie di opzioni di cui l’utente possa facilmente capire le implicazioni. In questo Mac OS X ideale, l’utente inserisce il DVD (o il Blu-Ray!) di installazione, e Mac OS X gli dà il benvenuto. Poi vengono presentate le opzioni e i moduli che è possibile aggiungere. Si vuole il modulo “grafica e Web”? Mac OS X installerà applicazioni stile iLife. Si vuole il modulo “musica e video”? Ecco gli equivalenti futuri di iMovie e Garageband. Si vuole il modulo “business”? Ecco i futuri Keynote e Numbers. Fin qui niente di speciale. Il bello arriva quando l’utente, che ha voluto provare il modulo “Musica e Video” per fare quattro pasticci, si accorge che non gli interessa più, che occupa troppo spazio su disco, ecc., e lo vuole eliminare. Va a un ipotetico menu “Operazioni di Sistema” e sceglie l’eliminazione del modulo “Musica e Video”, eventualmente specificando se vuole rimuovere solo “Musica” o solo “Video”. Mac OS X chiede conferma e poi procede a eliminare l’intero modulo senza lasciare alcuna traccia. I file video e/o musicali creati dall’utente naturalmente rimangono salvati, a meno che non sia l’utente stesso a dare il permesso al Disinstallatore di eliminare anche quelli. In caso di pentimento, l’utente andrebbe nella “Console” (vedi sopra), troverebbe una voce come “28 Nov 2008 — 14:44 — Eliminata la cartella “Progetti video” (segue elenco dei file)”, farebbe clic su [Annulla] e, in puro stile Time Machine, i file riapparirebbero. L’operazione di ripulitura sarebbe comunque sempre… pulita.

In questo modo non ci si ritroverebbe con file orfani o cartelle contenenti la cache di un browser che abbiamo installato per prova sei mesi fa e che è rimasta lì, con i suoi 95 MB di file inutili (mi è accaduto facendo pulizia sull’iBook G3 clamshell — la cartella della cache era di Chimera, ossia l’attuale Camino quando era ancora alla versione 0.0.6 o giù di lì). Con un sistema modulare e versatile, l’utente sarebbe libero di installare quel che vuole sapendo che potrà sempre eliminare tutto senza lasciare residui e soprattutto senza compromettere la stabilità del sistema. In caso di problemi con un aggiornamento di sistema o di un certo software, l’utente potrebbe semplicemente dire a Mac OS X di annullare l’operazione e ripristinare la situazione com’era prima dell’aggiornamento problematico. Secondo me con un sistema del genere si lavorerebbe ancora meglio, sicuri di non correre il rischio di fare sciocchezze, di prendere decisioni poco informate (perché il sistema ci chiede di intraprendere azioni utilizzando un linguaggio oscuro e ambiguo), e soprattutto con la sicurezza che, qualsiasi cosa accada, si può tranquillamente tornare sui propri passi.

Quindi, per rispondere a Lucio, Mac OS X dovrebbe poter offrire all’utente entrambe le opzioni: rimanere snello ed essenziale, lasciando all’utente la libertà di usare soluzioni e software alternativi, lasciando persino all’utente la libertà di installare solo la parte UNIX senza interfaccia grafica, nel caso l’utente sia sufficientemente nerd per occuparsi del resto; e poter offrire più funzioni e soluzioni fatte in casa da Apple per quell’utenza che vuole avere una macchina completa e versatile fin da subito.

David Pogue prova il BlackBerry Storm

Mele e appunti

State of the Art — No Keyboard? And You Call This a BlackBerry? — NYTimes.com: Spassosa stroncatura di David Pogue, che prova Storm, il nuovo modello di BlackBerry, e il verdetto è sostanzialmente un ‘tempestoso’ disastro. I miei stralci preferiti (oddio, dovrei citare tutto, ma farò uno sforzo di sintesi):

Un BlackBerry senza tastiera? Oh no!:

Il primo segnale che annunciava guai era il concetto: un BlackBerry touch-screen. Proprio così, nel suo impagabile zelo per cercare di guadagnare sfruttando la mania del touch-screen tanto diffusa da iPhone, RIM ha prodotto un BlackBerry senza tastiera fisica. Sveglia! La tastiera fisica non è forse sempre stato l’elemento caratterizzante di un BlackBerry? Un BlackBerry senza tastiera è come un iPod senza scroll wheel.

La tastiera virtuale cambia a seconda dell’orientamento. Come su iPhone! O quasi:

Quando si tiene il telefono in orizzontale, ecco il completo layout di tastiera Qwerty noto a tutti. Ma quando si ruota il BlackBerry in verticale, viene visualizzato il tipo di tastiera SureType, meno preciso, perché su ogni ‘tasto’ appaiono due lettere: è il software che cerca di prevedere quale parola stiamo scrivendo.

Per esempio, per inserire la parola ‘get’ si premono i tasti GH, ER e TY. Disgraziatamente sono gli stessi tasti per scrivere ‘hey’ [due termini molto usati in inglese]. Il problema è evidente. E provare a digitare indirizzi Web o cognomi insoliti è un’impresa senza speranza.

Si possono scorrere elenchi con il dito, come su iPhone! O quasi:

Per scorrere un elenco, bisogna far passare il dito sullo schermo, come su iPhone. Ma anche un gesto così banale diventa frustrante da impazzire sul BlackBerry: il telefono impiega troppo tempo a capire che state scorrendo e non facendo tap. E immancabilmente si mette a evidenziare voci a caso dell’elenco quando si comincia a scorrere; e poi, prima che lo scorrimento inizi, c’è un ritardo che lascia disorientati.

Inoltre lo scrolling manca di slancio, e non acquisisce velocità se muoviamo il dito più velocemente, come su iPhone e sul telefono di Google. Quindi far passare una lunga lista di messaggi o di numeri telefonici è piuttosto stancante.

Il BlackBerry si chiamerà anche ‘Tempesta’ (Storm) ma a quanto pare non è un fulmine:

Ci possono volere due secondi buoni perché l’immagine sullo schermo cambi quando si ruota il telefono di 90 gradi, tre secondi prima che si lanci un programma, cinque secondi prima che un tap su un pulsante venga riconosciuto. (Ricordate: per convertire i secondi in ‘tempo BlackBerry’, dovete moltiplicare per sette).

In breve: cercare di navigare su questo coso non è solo un esercizio di frustrazione — è una maratona di frustrazione.

Povera RIM! Hanno cercato di seguire l’esempio di Apple, offrire meno funzioni per avere un prodotto migliore sotto il punto di vista dell’interfaccia utente, eccetera. Ma mi sa che hanno esagerato:

Non ho trovato una sola persona che dopo aver provato questo dispositivo non sia rimasta sconcertata, perplessa, o entrambe le cose. E questo ancor prima di scoprire che lo Storm non ha il Wi-Fi.

Ma aspettate, c’è di meno”:

Entrambi i BlackBerry Storm che ho avuto in prova hanno mostrato di avere più bachi di un picnic estivo. Congelamenti, riavvii inaspettati, controlli che non rispondono, anomalie grafiche.

Il mio preferito: quando cerco di immettere il mio indirizzo Gmail, la fotocamera dello Storm si mette in funzione d’improvviso, trasformando lo schermo in un mirino, anche se la tastiera virtuale continua a rimanere sovraimpressa per metà dello schermo.

La domanda, infine, nasce spontanea:

Come ha fatto questo coso ad arrivare sul mercato? Forse che tutti quelli coinvolti nella sua realizzazione erano troppo spaventati da tirare il freno di emergenza di questo treno?

* * * * *

[Aggiornamento — febbraio 2009: Se avete trovato questo post dopo una ricerca con Google sul BlackBerry Storm, prima di affrettarvi a commentare, vi pregherei di leggere la discussione nei commenti, in special modo i miei interventi, che spero servano a chiarire ulteriormente la mia posizione. Vorrei semplicemente evitare di riscrivere cose già scritte, e vorrei davvero evitare che la discussione degenerasse ulteriormente in una disputa “BlackBerry Storm contro iPhone” nello stile di tante dispute “PC contro Mac” — discussioni che non portano a nulla e nient’affatto costruttive. Se avete rancori contro Pogue, se pensate che la sua recensione sia di parte e poco obiettiva, scrivete a lui e non a me. Ogni commento che non tenga conto di questa mia nota verrà automaticamente cancellato. Grazie per la collaborazione.]

Perché sviluppiamo per iPhone

Mele e appunti

Segnalato dal buon vecchio Gruber: Connected Data | Why we develop for the iPhone. Perché preferiscono sviluppare per iPhone?

Per specializzarci sullo sviluppo per le piattaforme BlackBerry, dobbiamo creare una build per ogni modello di telefono e per ogni tipo di rete. Come sviluppatore, semplicemente non me lo posso permettere. La maggior parte dei miei clienti possiede un BlackBerry. Credo che entro due anni al massimo avranno tutti un iPhone. Già mi sono giunte voci di corridoio che alcuni senior executive stanno chiedendo ai dipartimenti IT di cominciare a investigare in questo senso. Noi dovremmo essere fra i primi sviluppatori per il “vero” contesto Enterprise ad avere una applicazione iPhone nativa. Possiamo fare così tante cose in Objective C invece che nella versione di Java che gira sui BlackBerry. Sì, so quanto Java sia potente. So anche quanto sia difficile sviluppare per Java.

Desideri esauditi

Mele e appunti

Sempre sfogliando il numero 61 di MacFormat UK del marzo 1998 di cui parlavo nel precedente articolo, mi sono imbattuto in un’altra lettura interessante. Specie se vista con dieci anni di distanza. All’interno del dossier “Semi del futuro — Il futuro inizia oggi” accennato ieri, c’è una piccola sezione in cui MacFormat ha pubblicato alcune risposte che gli utenti iscritti alla mailing list MacFormat Bulletin hanno dato alla domanda Cosa vorreste da Apple per il 1998? Beh, ecco alcuni esempi di contributi. Come dicevo, interessante…

Gli utenti PC credono che i Mac siano esageratamente costosi, però continuano a sopportare logiche e procedure esasperanti [di una piattaforma] che nessuno, abituato a utilizzare un Mac, crederebbe possa aver avuto tanto successo dal punto di vista commerciale. […] Perché Apple non inizia a fare un po’ di pubblicità comparativa?”
(D. Callahan, Aveiro, Portugal)

Ora che l’interfaccia grafica è un elemento consolidato dei computer domestici, Apple deve ridefinire l’aspetto di un computer domestico. Deve ideare un look and feel completamente nuovo. […] Rhapsody [Il sistema operativo che Apple stava progettando nel 1998 e che sarebbe poi diventato Mac OS X — N.d.RM] non farà colpo sulla gente se non avrà un aspetto rivoluzionario. Novità e miglioramenti in fatto di multi-tasking e multi-threading hanno un’importanza relativa, che l’utente domestico medio non apprezza. L’utente medio vuole il look and feel”.
(P. Williams, Edinburgh)

Mi piacerebbe poter andare in un negozio che vendesse solo hardware e software Apple. Non mi aspetto una catena come quella di PC World, ma di certo almeno alcune fra le città più grandi dovrebbero avere degli store Apple dove uno possa recarsi e chiedere consigli. […]”
(B. Cutler, Kenilworth, Warwickshire)

Fra le cose che vorrei Apple facesse (e in fretta):

  • Un sistema operativo con meno ‘cerotti’ e più robusto.
  • Un sistema operativo che all’avvio non ci metta tanto quanto Windows a caricarsi. […]
  • Un Mac davvero compatto, che possa stare anche su una scrivania di dimensioni normali e che non costi un occhio della testa.

(G. Carrington, Canberra, Australia)

La cosa più importante da fare per Apple è rivolgersi all’utenza consumer entry-level e alle piccole imprese, cosa che Umax ha fatto particolarmente bene nel 1997. La chiave del successo è lì. […]”
(C. Jenkin — senza indirizzo)

Perché Apple non si mette a scrivere Mac OS per la piattaforma Intel? Sarebbe un passo per diventare la piattaforma più diffusa! […]”
(S. Day — Watford)