Il mini della discordia

Mele e appunti

Il 3 marzo Apple ha finalmente aggiornato anche la linea desktop. I cambiamenti più notevoli non riguardano tanto l’iMac, quanto il Mac mini e il Mac Pro. Ma è il Mac mini al centro della discussione, almeno per quanto mi è dato vedere nelle mailing list, forum e blog che seguo. Farò anch’io le mie considerazioni a riguardo.

Il Mac mini attendeva un aggiornamento da più di un anno e mezzo, e i ritocchi stavolta non sono stati superficiali. Esteriormente non è cambiato nulla, dentro è un’altra cosa. Il processore è più veloce, il bus di sistema e la memoria RAM pure, la scheda grafica è migliore, i dischi rigidi sono più capienti, il massimo di RAM installabile è maggiore, il SuperDrive è di serie, per non parlare delle porte: due porte video (DVI e DisplayPort), FireWire 800 (che ormai è la nuova FireWire 400 a livello di diffusione sui Mac), e cinque porte USB.

Il prezzo: 599 Euro (579 in Spagna) per la versione con disco rigido da 120 GB e 1 GB di RAM, e 799 Euro (779 in Spagna) per la versione con disco rigido da 320 GB e 2 GB di RAM.

Prima di buttarmi nella polemica, mi voglio levare un sassolino dalla scarpa. La scelta di continuare con la proposta del mini in due versioni è discutibile. Non è tanto un discorso di prezzo, come vedremo fra poco, ma di scarsa differenziazione delle due versioni, soprattutto per come viene percepita dal pubblico. Prendiamo l’iMac. Bello o brutto che sia, la distinzione fra le due versioni è netta: una ha lo schermo da 20 pollici, l’altra da 24. Tralasciamo per un attimo il fatto che in realtà l’iMac è proposto in quattro versioni (che si differenziano comunque l’una dall’altra per elementi facilmente distinguibili e quantificabili: processore più veloce, disco rigido più capiente, scheda video migliore, maggiore quantità di RAM video a disposizione) — la prima grande distinzione percepibile dal pubblico è lo schermo, sono le dimensioni fisiche della macchina. Una è più ‘grossa’: agli occhi dell’acquirente questo singolo fattore mette già in moto due suggestioni: 1. È più grosso = ha più cose, è ‘migliore’; 2. È più caro. E l’acquirente, che sia interessato all’iMac o meno, percepisce la distinzione immediatamente e giustifica le differenze.

Con il Mac mini il discorso non regge. Non c’è un elemento esteriore che proponga all’acquirente un’immediata distinzione. L’offerta è quella: due Mac mini del tutto identici fuori e con scarse differenze al loro interno. Uno non sembra nettamente ‘migliore’ dell’altro, né più ‘professionale’, né altro. L’unica cosa notevole agli occhi del pubblico è il prezzo, due prezzi piuttosto diversi, che l’acquirente fatica a giustificare, perché fatica — e non a torto — a percepirne le reali differenze.

Due possibili soluzioni avrebbero potuto essere:

  1. Proporre un unico Mac mini, con le caratteristiche dell’attuale versione di punta.
  2. Differenziare le due versioni in maniera più marcata, per esempio offrendo un maggior numero di accessori con la versione più costosa (tastiera e Mighty Mouse wireless, adattatori video); questo avrebbe creato una serie di elementi che il pubblico avrebbe potuto distinguere da subito (come per gli iMac): l’impressione di avere un sistema Apple completo, monitor a parte, comprando la versione di punta; una confezione ‘più grossa’ per il Mac mini più costoso (proprio perché comprensiva di accessori)… insomma, dettagli stupidi, ma a favore di una maggiore credibilità.

Detto questo, c’è chi trova troppo caro anche il mini da 599 Euro. Non sono d’accordo. Provo a offrire il mio punto di vista su due delle obiezioni più diffuse che ho letto o sentito in giro.

1. Con 350 Euro in più mi compro il MacBook entry-level, che ha pure lo schermo. Qui ho scelto una delle tante varianti — un’altra, per esempio, è con 500 Euro in più mi compro l’iMac da 20 pollici, ecc. ecc. Ma che significa? Certo, con duemila Euro in più mi compro un Mac Pro. Si potrebbe andare avanti così a ruota libera. Il fatto è che esistono utenti che non vogliono o non hanno bisogno di un portatile; che hanno già uno schermo a cui collegare il Mac mini; che non hanno spazio sufficiente per un computer più ingombrante; e, perché no, che non hanno 350, 500, 1000, 2000 Euro in più da spendere. Un Mac di queste dimensioni e con questa potenza è un ottimo prodotto per 599 Euro. Si può persino dire che, a confronto, il Mac mini precedente (il modello del 2007) era più caro perché decisamente sottopotenziato, sia rispetto alla concorrenza, sia rispetto agli altri Mac. Chi non ha molto denaro da spendere e vuole entrare nel mondo Mac, trova nel mini un computer sufficientemente potente da dare soddisfazioni per un bel po’. Chiaro, non è il computer più a buon mercato in assoluto, ma è il più abbordabile dei Mac, e offre una potenza paragonabile ad altri Mac più costosi. È anche e soprattutto questo che lo rende appetibile.

2. Esiste il PC [inserire un qualsivoglia modello e marca] che ha le stesse caratteristiche e costa 100, 150, 200, … Euro meno. Può essere, non dico di no. Ma tutti gli esempi che ho visto fare, o mi sono stati fatti, in realtà non calzavano. Che esista un tower Dell con lo stesso Intel Core 2 Duo del mini, che abbia uguale o maggiore memoria RAM, e tutto quel che volete, e costi 499 Euro, o 529, o 599, va benissimo, ma bisogna guardare al di là del proprio naso. Magari non ha la Ethernet gigabit ma una 10/100 normale. Molto probabilmente non ha Bluetooth e scheda wireless di serie, o due porte video. Quasi certamente non si può mettere in uno zaino e trasportarlo facilmente altrove come il Mac mini. Sicuramente non ha Mac OS X. Sicuramente non è progettato come un Mac. Queste non sono inezie, ma sono particolari che tanta gente non considera di valore. Se li si porta alla luce spesso si viene bruscamente etichettati come ‘fanatici Apple’, l’interlocutore alza gli occhi al cielo o fa una smorfia e la discussione finisce lì. Molti danno per scontato che si possa far stare un concentrato di tecnologie in così poco spazio, ma io non ho visto in giro tutta questa moltitudine di HP, Sony, Toshiba, Acer, Dell, piccoli come il Mac mini e altrettanto ben progettati.

Progettazione, design ingegneristico e integrazione fra hardware e software sono, in generale, fattori considerati di minore importanza dai detrattori, i quali, limitandosi a un confronto di specifiche tecniche su carta, non le vedono come ragioni sufficienti a giustificare il maggior prezzo del Mac mini ‘a parità di prestazioni’. Ho messo l’ultima espressione fra virgolette, perché non basta che le due macchine abbiano lo stesso Intel Core 2 Duo e la stessa RAM per sostenere chissà quale parità. Si possono fare le prove più svariate sul campo per dimostrarlo. Empiricamente, mi sono limitato a confrontare le prestazioni di due computer portatili che ho avuto sottomano contemporaneamente alcune settimane fa: il Toshiba Satellite (non chiedetemi il modello, ma è recente, direi del tardo 2007) di mia moglie, e il MacBook bianco di mio cognato, che è della serie anteriore a quello attualmente in commercio — è il modello entry-level dello scorso anno (Early 2008), con processore grafico Intel GMA X3100 e unità ottica Combo. Il Toshiba ha un Intel Core 2 Duo a 2,3 GHz e 3 GB di RAM; il MacBook ha un Intel Core 2 Duo a 2,1 GHz e 2 GB di RAM. Entrambi i computer non hanno configurazioni software particolari; mia moglie e mio cognato sono entrambi utenti per i quali va benissimo il software che viene preinstallato sulle macchine, e sostanzialmente i due computer hanno simili programmi: posta, browser, programmi per vedere DVD e video, la suite Microsoft Office, ecc. Cambiano i sistemi operativi, naturalmente: da una parte Vista Home Premium, dall’altra Mac OS X Leopard. Non ricordo che scheda grafica abbia il Toshiba, ma la memoria video è 256 MB, e a giudicare da un’icona presente nella taskbar, deve trattarsi di una ATI — quindi dedicata e non integrata, con memoria video separata e non condivisa con quella disponibile al sistema. Eppure…

Eppure il Toshiba si è rivelato meno reattivo nell’effettuare qualsiasi compito, dall’aprire una serie di finestre, o passare da un’applicazione attiva all’altra, al gestire il medesimo numero di applicazioni aperte sul MacBook. Con aperti Word, Excel, Outlook, Firefox, Google Chrome, Windows Media Player, iTunes il Toshiba era visibilmente più in difficoltà del MacBook con aperti Word, Excel, Mail, Firefox, Safari, VLC, iTunes e iPhoto. La mia non è stata una prova condotta scientificamente, ma la ritengo indicativa perché riproduceva situazioni tipiche dell’uso quotidiano.

Tornando al mini e alla seconda obiezione, è assai probabile che vi siano dei PC paragonabili al mini, specifiche tecniche alla mano, e che costino come il mini, o anche meno. Ma che sia la stessa cosa che usare un Mac mini… ho ragione di dubitare.

Non è questione di essere utente Mac, è questione di mentalità in generale. Esistono persone che ragionano in questo modo: per passare a Mac, il Mac deve costare ancora meno del PC medio mediocre in circolazione, e deve avere sulla carta delle prestazioni avvertite come superiori (processore più veloce, scheda grafica ‘migliore’, e così via). Insomma, perché Apple non ha introdotto un Mac mini a 8 core al prezzo di 299 Euro IVA inclusa? È così che si fa, altrimenti è bancarotta. Solo che Apple ha un fatturato strepitoso, ha 25 miliardi di dollari in banca, e forse in quanto a marketing ne capisce un po’ di più del sapientone pezzente di turno.

Molti dei miei interlocutori sull’argomento sono persone che provengono da anni di PC e manifestano una curiosa maniera di ragionare ‘al ribasso’: il computer migliore è quello che costa meno a prescindere. Se trovano un portatile a 700 Euro non va bene, perché sicuramente si può risparmiare comprando il portatile di un’altra marca in offerta al Carrefour per 549 Euro. Poi non importa se è così pieno di spazzatura software e mal configurato da essere minimamente usabile; non importa se per evitare il surriscaldamento ha due ventole attive in continuazione che fanno rumore come un asciugacapelli; non importa se dopo un mese di utilizzo i fermi in plastica(ccia) che fissano la tastiera si rompono e quando si batte sui tasti un po’ velocemente la tastiera si solleva; non importa se dopo sei mesi lo schermo LCD inizia a degradare presentando righine verticali. (Tutte situazioni di cui sono stato testimone). A questa gente importa il prezzo e basta. Questa gente ti dice che dentro i Mac e i PC sono uguali. Questa gente ti dice che tutta ‘sta storia del design dei prodotti Apple è una minchiata, uno specchietto per le allodole. Io apro il mio iBook conchiglione del 2001, senza un difetto, senza un guasto in 8 anni di uso continuato, e tiro dritto.

Prima di concludere vorrei ribadire che non è mia intenzione fomentare l’ennesima diatriba Mac contro PC. Perché se mi si legge fra le righe, si può capire che non sto dicendo: i Mac sono migliori, i PC fanno schifo. PC di buona qualità ve ne sono — ma non costano 500 Euro nemmeno loro. Con il mini alla soglia dei 600 ci si porta a casa un buon computer, potente e di dimensioni contenute, ben progettato e configurato in modo da essere subito produttivi. È in quest’ottica che bisogna inquadrarne il prezzo, ed è in quest’ottica che giudico il Mac mini un computer abbordabile e non necessariamente ‘costoso’.

Migliorare lo Shuffle?

Mele e appunti

In un recente articolo, John Gruber riflette brevemente sull’interfaccia dell’iPod Shuffle. L’articolo prende spunto da un suo errore di valutazione: quando, nel dicembre 2004, uno dei tanti siti di rumour (TheMacMind) predisse l’avvento di un nuovo iPod basato su memoria flash, economico e così piccolo che non avrebbe avuto nemmeno uno schermo, Gruber rispose che non era possibile. Ma era in errore, infatti al Macworld Expo del gennaio 2005, Apple introdusse lo iPod Shuffle.

Gruber, nel definire implausibile la predizione di TheMacMind e quindi la realizzazione di un tale dispositivo, si concentrò essenzialmente sul problema della mancanza di uno schermo:

Senza un’interfaccia grafica, l’unica possibilità rimasta sarebbe un’interfaccia audio — una sorta di funzione testo parlato per leggere elementi di menu, titoli di playlist, e così via, il tutto attraverso gli auricolari. Questa mi sembra la ricetta di un’esperienza utente frustrante, soprattutto quando si cerca di individuare un certo brano che non si trova nelle immediate vicinanze di quel che si sta ascoltando.

Parte del grande successo dell’iPod originale fu dovuta proprio al fatto che il suo schermo era più grande rispetto alla maggioranza dei prodotti della concorrenza. Non vedo come si possa ottenere un’esperienza minimamente decente con un dispositivo del tutto privo di schermo. 

Un’obiezione molto valida, che Apple ha brillantemente aggirato con il concetto di playlist unica da cui pescare brani a casaccio (oppure ascoltarli in maniera lineare, secondo l’ordine della playlist). Questo ha reso positivamente superflua la presenza di un display, e ha consentito la creazione di un lettore di file audio grande come una chiavetta USB. (E la prima generazione di iPod Shuffle assomigliava davvero a una chiavetta USB).

In questi anni i cambiamenti apportati allo Shuffle sono stati pochi. Prima hanno aumentato la capacità — da 512 MB a 1 GB — poi è stato rivisto esternamente, e le ultime modifiche sono state di nuovo nella capacità — da 1 a 2 GB –, sono apparsi nuovi colori, e infine è stato rivisto il prezzo. Internamente e a livello di interfaccia, tuttavia, lo iPod Shuffle è lo stesso di quattro anni fa.

È ora di introdurre qualcosa di nuovo anche qui, secondo Gruber:

[La] funzione di lettura del testo ad alta voce incorporata nel nuovo Kindle di Amazon mi ha fatto riflettere e ripensare alla mia vecchia idea di una possibile interfaccia audio per lo Shuffle. Se può farlo il Kindle, perché non lo Shuffle?

[…]

Io dico che è ora di un nuovo design. Certo, mi direte che “è solo lo Shuffle”, ma verrà riprogettato prima o poi. […] Farlo ancor più piccolo di così è improbabile, quindi perché non aggiungervi una funzione di testo parlato?

[…]

Dimenticavo: l’ultima generazione di iPod nano è dotata di tale funzione:

  • I menu parlati permettono di conoscere i nomi dei menu, i titoli delle canzoni e gli artisti senza guardare il display.

La si aggiunga allo Shuffle, dico io.

A mio avviso l’idea non è male — l’accessibilità è sempre una bella cosa — però bisogna valutare quanto valga la pena investire in un’espansione delle funzioni, e quindi dell’interfaccia, in un dispositivo super-portatile e super-economico come lo Shuffle.

La pagina delle specifiche dell’iPod nano elenca una serie di lingue supportate, ma non è chiaro se si riferisce alla funzione dei menu parlati o meno. Parrebbe di sì, e mi piacerebbe avere conferma da qualcuno che possiede un iPod nano. Se così fosse, passare questa funzionalità anche allo Shuffle non sarebbe difficile e non dovrebbe tradursi in un costo maggiorato per l’utente finale. Solo che, a meno di non rendere l’interfaccia audio sempre attiva, occorre aggiungere un qualche meccanismo per attivarla/disattivarla, il che si traduce nell’aggiunta di un interruttore esterno (simile ai due già esistenti di acceso/spento e riproduzione lineare/casuale) oppure — più probabilmente — di una combinazione di tasti. Un’altra combinazione che l’utente deve ricordare. In un dispositivo piccolo come lo Shuffle, anche l’interfaccia utente è ‘piccola’, ovvero non ha grandi spazi di movimento a meno di comprometterne la praticità. La bellezza dell’attuale interfaccia è che non è affatto necessario guardare la posizione dei pulsanti una volta memorizzato l’orientamento con cui si ‘indossa’ lo Shuffle. Creare nuove combinazioni di tasti rischia, a mio parere, di rompere l’equilibrio dell’intuitività d’uso dello Shuffle.

I vecchi Discman di Sony avevano la possibilità di inserire/disinserire un feedback sonoro a ogni pressione di tasto, e l’implementazione era semplice: bastava tenere premuto il tasto play/pausa per alcuni secondi, finché si udiva un beep di conferma. Sullo Shuffle si potrebbe fare una cosa del genere, e l’interfaccia non verrebbe complicata più di tanto.

Ieri Gruber ha aggiunto un’osservazione all’articolo summenzionato:

In merito al mio suggerimento della settimana scorsa, ossia che Apple dovrebbe aggiungere i menu parlati all’iPod Shuffle […], stavo pensando che il parlato potrebbe funzionare anche nell’altro senso. Se lo Shuffle avesse un qualche tipo di microfono incorporato, potrebbe ricevere comandi vocali dall’utente. Certo, non vorrei trovarmi seduto in aereo di fianco a un tizio che abbaiasse comandi come “Suona, avanti, avanti, pausa” per tutto il volo, ma potrebbe essere una funzione utile per chi usa l’iPod mentre corre o va in bici.

Hmmm… no. Secondo me non funziona.

Un conto è il supporto multilingue per la lettura del testo, un conto è il riconoscimento vocale multilingue. Vero: le stringhe vocali da riconoscere sarebbero poche, perché pochi sono i comandi da impartire per la riproduzione, ma rimane comunque l’ostacolo della precisione nel rilevamento di un comando e della prontezza dello Shuffle nel reagire a tale comando. Uno che fa jogging o corsa veloce o bici (o anche cyclette) parla sotto sforzo, e affinché quel che dice venga correttamente interpretato, il microfono deve stare vicino alla fonte sonora, oppure avere un buon raggio di ricezione. L’unico sistema (a parte tenere lo Shuffle relativamente vicino alla testa) potrebbe essere un microfono inserito nel cavetto degli auricolari, come sull’iPhone, ma questo limiterebbe la scelta degli auricolari per chi, appunto, si porta l’iPod durante attività sportive. Ho visto molti utilizzare cuffie anatomiche al posto degli auricolari bianchi Apple, cuffie che hanno una maggiore stabilità e che permettono la disposizione del cavo audio in maniera meno fastidiosa (con gli auricolari Apple, il cavo principale si divide in due cavetti, uno per auricolare, e il tutto rimane davanti a sé, mentre altre cuffie in commercio hanno un solo cavo in uscita da uno dei due padiglioni, e spesso permettono di far passare il cavetto dietro la testa, per maggiore comodità).

Non so davvero quanto possa essere utile un’interfaccia del genere. Per esserlo, come dicevo, è necessaria una certa precisione e reattività. L’utente non deve essere costretto né ad alzare troppo la voce, né a ripetere più volte un comando perché lo Shuffle non ha inteso bene. Per essere efficace, il riconoscimento vocale deve essere pronto e veloce quanto la pressione del tasto del comando corrispondente. E forse mi sbaglierò, ma io non ho ancora incontrato un riconoscimento vocale così valido.

La direzione interessante di Stainless

Mele e appunti

Spero di non saturare eccessivamente parlando ancora di browser, ma devo farlo perché in questo periodo, a quanto pare, fervono gli sviluppi nel settore.

Come ormai saprete, il browser è una tipologia di software a cui sono parecchio interessato. In primo luogo perché, insieme a programmi di scrittura e impaginazione e alle applicazioni di gestione della posta, è uno strumento con cui convivo ogni giorno. Il word processor o editor di testi sta alla scrittura come il browser alla lettura, e quindi è importante. Secondariamente mi interessano i browser perché offrono spunti notevoli di riflessione in merito ad argomenti a me cari come l’usabilità, l’accessibilità e le interfacce utente.

Ho sempre cercato di seguire gli sviluppi di tutti quei progetti che non erano i soliti ‘grandi nomi’ (prima Netscape e Microsoft, oggi Microsoft, Mozilla e Apple); fui tra i beta tester di Mozilla quando gli indicatori di versione erano M16, M17, ecc. (quindi ancor prima di assumere il formato 0.x.x); sto studiando gli strumenti di localizzazione per poter dare il mio contributo a Camino; e in genere cerco di stare al passo con altri progetti di browser.

Dopo essere stato ‘sedotto e abbandonato’ da Shiira (un browser promettente, ma il cui sviluppo è stato fermo più di un anno a uno stadio di beta con bug e dis-funzionalità irritanti), ho trovato un nuovo pupillo, che ho già menzionato un paio di volte in questa sede: Stainless (solo per Mac OS X Leopard). Un progetto partito in punta di piedi e con umiltà, con lo spirito di creare niente più che una technology demo per mostrare un tipo di architettura multi-processo alternativa a quella implementata da Google Chrome.

La semplicità e l’efficienza di questo browser estremamente spartano (fino a ieri non aveva il minimo supporto per i bookmark, nessuna funzione di autocompletamento delle URL, assenza di qualsivoglia preferenza per gestire l’aspetto e i contenuti Web, ecc.) hanno però riunito una base sostanziosa di utenti, che come il sottoscritto hanno apprezzato gli sforzi di Mesa Dynamics e si sono presi la briga di inviare tanto feedback positivo, al punto di convincere l’azienda a proseguire lo sviluppo e a ‘fare sul serio’. E oggi è uscita la versione 0.5.1, che incorpora una novità interessante e unica nel suo genere: il concetto di sessioni parallele. Loro lo spiegano chiaramente e succintamente nella pagina principale:

[Le sessioni parallele] permettono di effettuare il login in un determinato sito utilizzando credenziali diverse, contemporaneamente e in pannelli separati. Questa nuova tecnologia è parte integrante di Stainless a tutti i livelli, dal sistema privato di archiviazione dei cookie, a bookmark sensibili alla sessione in cui sono stati salvati. 

Per fare un esempio pratico, adesso Stainless è l’unico browser che mi permette di accedere contemporaneamente ai quattro account Gmail che uso più di frequente. Invece di aprire un pannello normale, con ⌘-T, si apre un ‘pannello di sessione separata’ (File > Single Session Tab, oppure ⇧-⌘-T); io ne apro quattro e sono a posto. E dato che Gmail notifica in tempo reale l’arrivo di nuova posta (il numero di messaggi non letti appare nel titolo del pannello), è molto comodo avere più account sott’occhio. Se ho inteso bene, il meccanismo che permette tutto questo è l’archiviazione temporanea dei cookie in una posizione esterna rispetto al normale archivio del browser. Ogni pannello, quindi, non è solo un processo distinto, ma avendo il suo ‘ripostiglio’ personale diventa anche una sessione distinta. Io lo trovo geniale.

Dalla versione attuale, Stainless comincia a supportare anche i bookmark. Anche l’approccio ai bookmark è un po’ differente dagli altri browser. Non c’è una barra dei bookmark posta orizzontalmente nella classica posizione sotto la barra degli strumenti, e non c’è (ancora) un menu o una finestra dedicata alla loro gestione. Appare invece una sottile barra verticale sulla sinistra della finestra del browser, nella quale è possibile trascinare le icone dei siti Web (favicon) e inserirle così fra i preferiti. Il sistema mi sembra interessante. Il fatto che rimangano solo le piccole icone per me non è eccessivamente problematico: nelle barre dei bookmark di altri browser tendo sempre ad abbreviare le etichette in modo da poter avere più bookmark (o cartelle di bookmark) visibili. E poi dei siti che visito più spesso mi ricordo bene la favicon. Sono curioso di vedere se e come implementeranno le cartelle in cui inserire più siti (per ora è possibile inserire solo siti singoli, anche se comunque lo spazio è più che sufficiente). Un problema, però, sono i siti (o le pagine Web) che non hanno un’icona personalizzata — in questo caso rimane l’icona generica del mappamondo:

stainless-sidebar.png

In questo esempio si possono vedere e distinguere il sito di Apple, Flickr, Stainless, e poi un’icona generica, che per la cronaca è quella di Macworld Italia. Un altro problema possono essere le sottopagine di uno stesso sito, che hanno per forza la stessa icona, ma è sufficiente passare il puntatore sulle icone per far apparire i tooltip, le etichette gialle d’aiuto, che riportano esattamente il titolo della pagina Web a cui il bookmark si riferisce. L’inconveniente rimane con siti fatti maluccio (come Macworld Italia), che non formattano propriamente l’HTML per inserire un titolo alle pagine. Se passo il puntatore sull’icona generica, il tooltip non mi dice che è la pagina del blog di Lucio, ma riporta l’altrettanto generica indicazione “New Tab”.

Però l’idea della disposizione verticale e ridotta al minimo dei bookmark è interessante. A ben pensarci, la maggior parte dei siti lascia un ampio margine inutilizzato ai lati delle pagine, quindi una barra laterale ruba meno pixel preziosi alla navigazione del sito rispetto alla striscia orizzontale dei bookmark degli altri browser. L’altro browser che sfrutta questo concetto è OmniWeb, ma per i pannelli, e il ‘cassetto’ che si apre sulla sinistra (o destra) sposta un po’ troppo la finestra principale.

Stainless è in buona salute: mai visto una beta così stabile ed efficiente (il motore di rendering è WebKit). E approvo la direzione che Mesa Dynamics sta intraprendendo, nonché l’approccio ‘a piccoli passi’ che, dopo la valanga di innovazioni e cambiamenti di Safari 4, è come respirare una boccata di aria fresca, grazie anche all’interfaccia più zen, per così dire. Spero continui così.

Quartz Extreme ma non troppo

Mele e appunti

Probabilmente il mio articolo di ieri, sullo stato dei client di posta elettronica, si è un po’ perso nel marasma dovuto all’uscita dei nuovi Mac, ma ci terrei davvero a conoscere la vostra esperienza e opinione in merito.

Oggi invece mi va di ribadire quanto siano frustranti certe ‘innovazioni’ di Safari 4 Beta.

topsites

(Ho effettuato modifiche via Terminale per riavere l’interfaccia di Safari 3).

Top Sites è una bella idea, davvero, e l’implementazione carina, davvero, ma in questo stato è inservibile. Mi rendo conto che è più un problema mio, ossia del mio povero PowerBook G4, che ha la sfortuna di avere una scheda grafica che si trova giusto al confine tra il bene e il male. NVIDIA GeForce FX Go5200, 32 MB di RAM video, una scheda 8x AGP montata su una connessione 4x. Sulla carta la scheda supporta Quartz Extreme — lo si nota da certi dettagli, come l’attivazione di un widget in Dashboard, che avviene con il classico effetto d’acqua (se la scheda non supportasse Quartz Extreme non si vedrebbe). All’atto pratico lo supporta abbastanza. Abbastanza per fare certe cose, ma non abbastanza per farne altre. Quando installai Leopard la prima volta, il fatto che la barra dei menu fosse solida era per me normale. Ma in tutte le schermate che avevo visto sul Web la barra era trasparente. Discussi questa piccola stranezza con John Gruber, e la nostra ipotesi (presto confermata) era che si trattasse di una limitazione della scheda grafica, appunto abbastanza potente ma non da abilitare di default alcuni effetti.

Alla pagina del download di Safari 4, si dice che i requisiti per le funzioni Top Sites e CoverFlow in Safari richiedono una scheda grafica che supporti Quartz Extreme. C’è pure un rimando a una brevissima nota tecnica che dice Se Top Sites e Cover Flow non funzionano in Safari 4 Public Beta, assicurarsi che la propria scheda video supporti Quartz Extreme (Mac OS X) o DirectX 9 (Microsoft Windows).

Quando si ha una scheda come la mia, che supporta-ma-non-abbastanza, Top Sites e CoverFlow funzionano, ma non bene. Nella schermata è possibile vedere Top Sites sul mio PowerBook in una bella giornata. Le aberrazioni grafiche che vedete sono ancora poche. Altre volte la situazione è anche peggiore. Dopo aver catturato la schermata, ho premuto F11 per visualizzare la scrivania e l’interfaccia grafica dell’intero sistema ha cominciato a non rispondere in modo reattivo. Tutti i comandi legati a Exposé e Spaces reagivano con mezzo minuto di ritardo. Ho dovuto chiudere la finestra di Top Sites per risolvere.

Quel che mi piacerebbe fosse implementato (e ho mandato feedback ad Apple) è un comportamento analogo a quanto visto per la barra dei menu: se il sistema grafico non ha risorse sufficienti, fare un passo indietro per rendere la funzione utilizzabile, magari eliminando gli effetti speciali e offrendo un Top Sites spartano, bidimensionale. Invece mi tocca disattivarlo. E tenere CoverFlow al minimo (peraltro non vengono caricate le anteprime e la maggior parte dei miei bookmark vengono visualizzati con segnaposti, vanificando lo scopo primario di CoverFlow — ma su questo mi riservo di indagare più a fondo).

Lo stato dei client di posta elettronica

Mele e appunti

Circa tre settimane fa leggevo un articolo di Alex Payne dal titolo The Problem with Email Clients (Il problema dei client di posta), nel quale Payne presenta quelli che a suo avviso sono i pro e i contro dei client di posta come applicazioni a sé stanti (Mail di Apple, Thunderbird, ecc.) e della consultazione della posta via Web. Dalla panoramica tracciata da Payne, Gmail ne esce come il servizio più innovativo in questo settore negli ultimi anni, e la sua conclusione è che le applicazioni desktop di gestione della posta dovrebbero comportarsi più come l’interfaccia Web ma assolutamente non viceversa. Payne dice cose molto condivisibili, ma anch’io ho qualche considerazione da fare in proposito.

Il bello di Gmail

Payne inizia citando a sua volta un articolo estremamente a favore di Gmail scritto da Farhad Manjoo, che si occupa di scrivere di tecnologia per il sito Slate. Payne:

Manjoo ha assolutamente ragione nel sostenere che Gmail ha superato i client di posta sotto quasi ogni punto di vista. Parla della velocità di Gmail, della sua efficienza, del fatto che l’utente non deve preoccuparsi dello spazio/supporto di archiviazione, né di come funziona la ricerca ‘sotto il cofano’. Stranamente però Manjoo non cita una delle migliori scelte di design di Gmail: le conversazioni.

Gmail presenta gli scambi di email (i thread) come una lunga conversazione, partendo dal messaggio più datato e finendo con il più recente. Quando si ritorna a una conversazione, i messaggi più vecchi vengono visivamente compressi e quando serve esaminarne uno è possibile espanderlo. Non importa se altre persone si uniscono al thread, la conversazione rimarrà sempre un’unica pila di messaggi compatta, verticale, in ordine cronologico. È possibile archiviare intere conversazioni e queste torneranno in evidenza nella casella di Entrata in caso arrivino nuovi messaggi pertinenti.

Chiunque abbia provato estesamente Gmail noterà molto presto come le conversazioni siano una funzionalità indispensabile. Tornare a un qualsiasi altro client di posta è tremendo e disorientante. […]
Con le conversazioni, Google ha offerto l’unico vero progresso nell’architettura delle informazioni dei client di posta da decenni a questa parte.

Personalmente ritengo che sia una questione di abitudini. Ho iniziato a usare in maniera continuativa l’email dieci anni fa. Il mio client di posta è stato Netscape Messenger (il modulo Mail & News di Communicator) ed è durato, incredibile a dirsi, da Mac OS 8.6 fino ai tempi di Mac OS X 10.2 Jaguar. Si può dire che la definitiva transizione a Mail (a cui si è aggiunto in seguito Mailsmith) è avvenuta per me con l’uscita di Mac OS X 10.3 Panther. Ho sempre organizzato e letto la mia posta in ordine cronologico e mai per thread; per chi segue parecchie mailing list, l’organizzazione per thread sembra una buona idea, e in linea di massima lo è, ma basta che un partecipante alla discussione inizi un nuovo thread rispondendo a un messaggio di un altro thread e cambiandone l’oggetto, ed ecco che la preziosa organizzazione per thread cade come un castello di carte.

Proveniendo da questo tipo di organizzazione, ho trovato le conversazioni in Gmail un po’ disorientanti al principio (non sono nuovo a Gmail — lo uso da quando era in beta privata e gli inviti a disposizione si diffondevano col contagocce), e oggi non mi fanno né caldo né freddo. Sono utili senza dubbio, ma non le considererei “l’unico vero progresso nell’architettura delle informazioni dei client di posta da decenni a questa parte”.

Secondo me i punti di forza di Gmail sono altri, primo fra tutti l’interfaccia utente, che è indubbiamente frutto di duro lavoro per presentare con estrema semplicità una macchina complessa. Osservando l’interfaccia Web di Gmail, tutto è sott’occhio e raggiungibile con il minor numero di clic possibili. E la reattività rasenta e spesso eguaglia quella di un’applicazione a sé stante. E la supera nella gestione di migliaia di messaggi. Con un clic si accede alla cartella Spam, e con un altro clic si possono cancellare — come ho fatto ieri — 5392 messaggi di spam con la stessa velocità che Mail impiega a cancellarne 5. Questo grazie all’incredibile spina dorsale che supporta ogni servizio di Google, specie Gmail, e che rende possibili operazioni del genere a quella velocità. Semplicità d’uso, affidabilità, velocità nell’effettuare qualsiasi ricerca, e un’interfaccia efficace, che mette davanti all’utente solo la cosa più importante: la sua posta e i comandi necessari a gestirla. Quando osserviamo una delle nostre caselle Gmail aperta nel browser non vi sono immagini, né un’interfaccia graficamente intrusiva che distoglie l’attenzione o confonde l’utente con icone magari non riconoscibili da subito. Il testo la fa da padrone. La corrispondenza.

Il problema dei client di posta

Secondo Payne,

Il problema dei client di posta è che sono rimasti fermi, non vanno da nessuna parte, non accennano a evolversi. Mentre Google ha fornito soluzioni che migliorano l’esperienza dell’email, Apple, Mozilla, Microsoft e ora anche Postbox sono lì a girarsi i pollici e a guardare il soffitto. Nel consigliare l’impiego di un client di posta a sé stante, l’accento viene posto sul fatto che in tal modo si ha una copia di ogni messaggio archiviata sul nostro disco rigido, ma ormai anche questa lacuna è colmata. E allora perché si continua a utilizzare i client di posta?

Payne (si) risponde affermando che, in sostanza, le applicazioni Web — e Gmail su tutte — sono una gran bella cosa, fanno molto, ma non tutto (e bene):

Detta da uno sviluppatore di applicazioni Web quale io sono, questa potrà suonare come un’eresia, ma credo che le applicazioni Web in circolazione sono in gran parte orribili. Odio usarle. Quando devo risolvere un problema informatico, voglio farlo servendomi di un’applicazione rifinita, stabile e nativa, progettata per il mio sistema operativo d’elezione. Un’applicazione che sembri appartenere in tutto e per tutto al mio computer. Non credo nelle Rich Internet Applications — sono uno spauracchio che spero se ne vada una volta per tutte.

[…]

Mi piace usare Gmail, ma mi piacerebbe ancor di più se rispettasse le regole del mio sistema operativo, non quelle del Web. Il Web ha molto da offrire per risolvere certi tipi di problemi, ma non sono convinto che l’email sia uno di quelli.

Sono abbastanza d’accordo. Io continuo a preferire le applicazioni a sé stanti per la gestione della posta, perché malgrado la struttura solida che Google ha senza dubbio alle spalle, il fatto di non avere un archivio raggiungibile localmente non mi lascia tranquillo al 100%, e infatti ho configurato Mail e Mailsmith in modo che scarichino la posta in locale, pur mantenendo una copia sul server (lo considero un sistema rudimentale e semplice per avere un minimo di backup).

Sono con Payne anche quando sostiene che uno degli errori che i maggiori client di posta hanno commesso nei loro recenti sviluppi è quello di offrire nuove funzioni di dubbia utilità invece di concentrarsi sul potenziamento e l’ottimizzazione della gestione dei messaggi email. In effetti io dei Modelli di Mail non so che farmene, mentre invece ho accolto con piacere l’aggiunta dei feed RSS (Payne lascia intendere che l’implementazione è insufficiente, mentre a mio avviso va bene così — Mail non deve fare il lavoro di NetNewsWire o di Vienna; in più trovo coerente e intelligente la scelta di design per cui in Mail i feed RSS siano trattati come messaggi email).

Osservando i maggiori client di posta attualmente disponibili, a mio avviso le innovazioni più importanti devono riguardare soprattutto quel che l’utente non vede, ciò che sta dietro l’interfaccia. Quella è la lezione da imparare da Google. Migliorare le ricerche, migliorare il modo in cui i messaggi vengono archiviati, raffinare degli standard che permettano una migrazione indolore verso un altro client di posta, evitare inutili e astruse soluzioni proprietarie, usare — la butto lì — testo puro o al più XML e mettere il tutto in una directory di cartelle magari automaticamente criptata con PGP. E che il tutto sia in gran parte invisibile all’utente, che deve avere di fronte un’interfaccia chiara e incentrata sulla sua corrispondenza elettronica. L’utente deve avere sempre la sensazione che sia l’applicazione a piegarsi al testo, alla gestione dei messaggi email, e non il contrario.

I filtri, per dirne una, sono uno strumento molto potente, ma la loro implementazione è ancora troppo complessa. Gmail fa uno sforzo in questa direzione, e il sistema delle etichette è visivamente intuitivo; in più, quando si crea un filtro, Gmail permette di fare una ricerca previa dei messaggi che potrebbero corrispondere ai criteri indicati, come a dire: ‘questi sono i messaggi che saranno interessati dalle opzioni che hai specificato — va bene così?’. E questo è un buon sistema per avere conferma della bontà di un filtro. Ma si può fare di più: immagino un programma che mi permetta di creare una cartella e, basandosi sul campione di messaggi che sposto in quella cartella, che mi proponga la creazione del filtro. La tecnologia per effettuare questo genere di riconoscimento c’è già: i filtri bayesiani che permettono a un client di separare lo Spam dai messaggi buoni.

Queste sono le prime cose che mi sovvengono, ma vorrei avere una vostra opinione in proposito. Come vi trovate con i vostri client di posta? Vantaggi? Limitazioni? Quali funzioni vorreste vedere implementate? In che direzione si deve muovere l’evoluzione dei client di posta elettronica (o della webmail)? Sono genuinamente curioso.