Propositi per il 2009: pulizia virtuale

Mele e appunti

Alcune avvisaglie

1. Ieri sera stavo caricando tre foto sul mio account Flickr. Per comodità utilizzo un programma semplice e ben fatto, 1001, che mi permette da subito di scrivere una didascalia per la foto, specificare in quale raccolta (Set) inserire una foto, a quali gruppi inviarla e quali tag attribuirle. Tempo impiegato complessivamente: 35 minuti circa. Scegliere le foto e inviarle a Flickr è l’operazione più semplice. Ad aumentare i tempi è il processo di catalogazione. Nessuno mi obbliga a farlo, ma per queste cose tendo a essere ordinato, e avendo una base di tag e categorie che è andata crescendo dal 2005 in qua, preferisco mantenere una certa omogeneità con il mio piccolo archivio fotografico online. Però 35 minuti per tre foto sono troppi.

2. Quando iniziai a utilizzare Internet per davvero, alla fine del 1999, la tipica mattinata telematica — tazza di caffè in mano, iMac acceso davanti a me — prevedeva queste poche semplici azioni:

  • Collegarsi a Internet (immaginate la tipica sequenza di toni e rantoli del modem 56K);
  • Aprire Netscape Messenger, il client email di Netscape Communicator 4.7, e scaricare la posta dai miei unici due account tin.it e inwind.it;
  • Cercare informazioni usando motori di ricerca come Altavista, Lycos, HotBot (oggi, nell’èra Google, sembrano parole arcane o antiche divinità, pur continuando a esistere);
  • Gestire quelle poche email ricevute, e fare un giretto in qualche newsgroup dove si parla di libri, di società, di avventure testuali;
  • Iniziare a studiare, scrivere, lavorare.

 

Tempo impiegato per questa routine: approssimativamente 25, 30 minuti al massimo.

Oggi la tipica mattinata telematica è più o meno questa:

  • Risveglio il PowerBook dallo stop. Sono già connesso a Internet e i due client di posta, Mail e Mailsmith, sono già aperti. Mailsmith inizia a scaricare automaticamente i nuovi messaggi dai sei account Gmail che gestisce, essenzialmente account legati a mailing list e progetti specifici come i miei blog;
  • Scarico la posta manualmente dagli altri quattro account gestiti da Mail: il mio account con la posta di lavoro, un altro account per le due mailing list che seguo più spesso, un account Gmail per la posta personale;
  • Risveglio il PowerMac G4 Cube. NetNewsWire è già lì che mi aspetta e comincia a aggiornare i 35 Feed RSS che seguo più attivamente e i 50 che seguo meno assiduamente. Ultimamente lascio aperto anche Twitterrific, che mi aggiorna su quel che stanno dicendo e facendo i circa 80 contatti che seguo in Twitter;
  • Comincio a gestire la posta, in ordine di urgenza. Dò un’occhiata alla quantità di email nuove delle singole mailing list e passo a consultare quelle con il maggior numero di nuovi messaggi. Se è il caso, rispondo e scrivo i miei contributi. Se ci sono lavori urgenti in ballo, gestisco solo la posta negli account personali e di lavoro;
  • Guardo se ci sono nuovi commenti nei miei blog. Gestisco la moderazione dei commenti, approvo, rispondo, ecc.
  • Passo in rassegna qualsiasi tipo di notifica di attività sui vari siti, forum, community in cui ho un account ancora attivo;
  • Passo in rassegna le notizie e gli articoli nuovi nel lettore RSS, vedo se c’è qualcosa di interessante che val la pena appuntarsi per parlarne nei miei blog, e in generale mi tengo aggiornato e informato soprattutto nel settore tecnologico, che è un po’ il mio pane, ma senza dimenticare la letteratura e la scrittura, che in un mondo ideale dovrebbero essere quel che mi dà il pane;
  • Consulto anche il mio taccuino di appunti e scrivo sui miei blog;
  • Una volta in questa routine avviavo anche iChat, ma è da tempo che preferisco farlo la sera e non sempre.

 

Tempo impiegato per questa routine: approssimativamente 3 ore, quando va bene.

3. L’altro giorno leggo questo post nel blog di Seth Godin, dal titolo Confondere l’attività con l’azione. Gli scritti di Godin si rivolgono essenzialmente a chi si interessa e/o lavora nel marketing, nell’imprenditoria, ecc., ma la prima parte di quel post mi ha parlato a bruciapelo:

Il fatto è che la maggior parte di quel che si fa online non costa nulla.

Ai vecchi tempi il denaro aggiungeva attrito. Il denaro rendeva schizzinosi, obbligava a ponderare le varie scelte. Il denaro faceva in modo che si valutassero opportunamente i propri lavori in fatto di marketing, perché se non avessero funzionato, si sarebbe perso denaro.

Oggi leggere postare linkare partecipare alle reti connettersi commentare fare un podcast fare linkblurbing e doseedoing online sembrano tutti compiti di marketing essenziali, indispensabili. Di sicuro tengono occupati.

Ma tutta questa attività non è che sta ostacolando il nostro agire?

Tutto quel che si fa online sta davvero portandoci dove vogliamo, o non fa altro che tenerci occupati?

Dmitri chiama questo fenomeno “imitazione di attività turbolenta” […]

Il fattore tempo

Come avrete intuito, il punto cruciale di tutta la faccenda è il tempo. Questo meraviglioso Web 2.0, che indubbiamente ha portato cambiamenti positivi, a volte mi dà l’impressione di essere composto da un numero sempre maggiore di archivisti e ragionieri. Tutto questo dividere in categorie, taggare, linkare, separare; tutti questi siti, servizi, account da aprire e da gestire per fare qualsiasi cosa; tutto questo insistere sull’aspetto “sociale” di qualsiasi cosa… Ha certamente un suo fondo di utilità e non sarò io a negarlo, ma ultimamente mi sta stancando. All’inizio è facile: si apre un account sul sito X, uno sul sito Y, e si comincia a partecipare e a stare ai giochi, e intanto questi livelli iniziano a stratificarsi, e a volte si arriva a picchi di ingestibilità. Senza parlare (ci vorrebbe un libro) di certe distorsioni che il cosiddetto social networking sta apportando al connettersi socialmente nella vita reale e non telematica. La vicina di casa (non abita proprio sul nostro stesso pianerottolo, ma nel palazzo accanto) organizza una cena contattando gli interessati via Facebook, quando tutte le persone coinvolte abitano nel raggio di 500 metri nello stesso quartiere. So che un altro conoscente è alterato con me perché non lo seguo su Twitter. Mah.

Ma sto divagando. Molte di queste cose, almeno per quanto mi riguarda, sono andate creando un cuscinetto di ridondanza che mangia tempo e succhia energie, spesso e volentieri non restituendo una ricompensa adeguata a quel tempo e a quelle energie che si sono investiti. Per carità, non tutto deve essere per forza produttivo e Internet è anche intrattenimento e tempo dedicato ad attività ludiche, non remunerative, hobby e passioni. Non starei mantenendo questo e altri blog se così non fosse.

Tuttavia quella domanda secca del post di Godin attanaglia: Ma tutta questa attività non è che sta ostacolando il nostro agire?

Potare fa bene alle piante, e non solo

Per il 2009 uno dei miei propositi è fare ordine e pulizia. Non solo in casa, ma anche e soprattutto online. Scremare i mastodontici archivi dei bookmark dei browser, cancellare account email che non utilizzo più e account di siti e servizi che sto mantenendo per inerzia. Ridurre la mia presenza online in pochi centri nevralgici invece di aprire un blog per ogni idea che mi passa per la testa. Sfoltire sfoltire sfoltire. Ottimizzare l’esistente e salvaguardare quel che vale davvero la pena salvare. Dare ancora più valore alle persone aggirando la trappola del social networking prefabbricato e riprendendo corrispondenze interrotte. E organizzarsi anche in vista di future esperienze: c’è un nuovo sito o servizio di cui si dice un gran bene? Tenerlo d’occhio per un periodo di prova e poi decidere se piace / è utile / migliora la vita oppure se è soltanto altro rumore di fondo e altro tempo rubato ad attività più redditizie o soddisfacenti. È come una dieta dimagrante. E, analogamente a una dieta dimagrante, è importante seguire un regime sano, senza esagerare e senza perdere il contatto con le realtà, online e offline.

Limiti del sistema e soluzioni di terze parti

Mele e appunti

Coincidenza vuole che su due mailing list che seguo il discorso sia recentemente finito sui limiti di Spotlight in Mac OS X Leopard. In entrambi i luoghi di discussione, alcuni utenti lamentano il fatto che, per come utilizzano loro il Mac, Spotlight sia uno strumento inadeguato, inefficace, ridicolo, vergognoso. E pare trovino inconcepibile il dover ricorrere a un software di terze parti (Leap, nella fattispecie) per fare quel che in fondo dovrebbe fare il sistema operativo.

Sui limiti di Spotlight, e soprattutto sui curiosi passi indietro fatti rispetto a Mac OS X 10.4 Tiger, ho già parlato in questo post e in quest’altro. Pertanto posso capire bene la frustrazione di chi vorrebbe davvero poter usare Spotlight come strumento per effettuare ricerche non solo potenti e raffinate (in questo Spotlight è migliorato in Leopard rispetto a Tiger), ma anche semplici, intuitive e gestibili (in questo è peggiorato).

L’argomento secondo cui è assurdo essere costretti a usare soluzioni di terze parti, però, a mio avviso non regge, specie se stiamo parlando di utenti esperti.

È vero, Apple ha sempre presentato con una certa fanfara le funzioni di Mac OS X. In parte, lo sappiamo, è marketing. L’altro aspetto da considerare — e che a volte sembra ignorato — è che gli strumenti forniti con il sistema operativo sono strumenti e funzionalità di base, più che sufficienti per iniziare a utilizzare il Mac una volta fuori dalla scatola, ma nient’affatto esaustivi (né pretendono esserlo) e fatti su misura. Ognuno ha esperienza e conoscenze diverse, lavori diversi, specializzazioni fra le più varie, e soprattutto abitudini e modus operandi differenti. Da che esistono i personal computer, si è sempre cercato di personalizzare i propri sistemi per adattarli il più possibile ai propri bisogni, al proprio lavoro, al proprio modo di ‘funzionare’ — e lo si è fatto invariabilmente in due modi: 1) scrivendosi le applicazioni, per chi sa farlo; e 2) ricorrendo a software e soluzioni di terze parti.

Ai tempi del System 6 e del System 7, le piccole utility di terze parti che in una maniera o nell’altra estendevano il sistema operativo o svolgevano meglio certi compiti di sua competenza erano centinaia. Prima che diventasse una funzione integrata nel Mac OS, persino l’orologio sulla barra dei menu era un’opzione fornita da un software non-Apple. La funzione di ricerca nel System 7 non era malaccio, ma io mi trovavo molto meglio usando Fast Find, software compreso nel pacchetto delle Norton Utilities (sì, fino alla versione 3.x erano ottime e indispensabili sui Mac d’annata). La gestione della RAM veniva svolta in maniera più ottimizzata da applicazioni come RAM Doubler che non dal sistema.

L’estensibilità di un sistema operativo è importante. Il tallone di Achille del Mac OS Classico, se vogliamo, è che se non si fanno le cose per bene, a mano a mano che si aggiungono personalizzazioni e strumenti di terze parti, aumentano proporzionalmente i rischi di incompatibilità e di instabilità del sistema. Quando mi capita di avviare un vecchio Power Mac e vedere una cinquantina di estensioni che si caricano durante il boot, ho l’impressione di vedere una pila di cose ammassate una sull’altra (e tutte sul groppone del sistema) fino a creare una torre paurosamente pericolante. Mac OS X mi dà tutta un’altra impressione e l’integrazione fra elementi di sistema e soluzioni esterne è certamente più robusta.

In buona sostanza: abbiamo sottomano un sistema davvero estensibile — estendiamolo, se questa è l’esigenza. C’è chi si accontenta di Anteprima per aprire file di immagine e PDF e fare qualche modifica. E c’è chi ha bisogno di Photoshop e Acrobat Professional. Per non parlare di tutte le situazioni e soluzioni intermedie. E questo vale per tutti gli aspetti e le funzioni di Mac OS X. A me il Finder e Spotlight vanno abbastanza bene come sono. Altri ricorrono felicemente a programmi che ne fanno le veci e anche di più, perché sono più sofisticati, più flessibili, più vicini a come un certo utente concepisce la propria scrivania e le proprie ricerche. Ci sono persone a cui iPhoto va benissimo e ne sono entusiasti. Io lo trovo insopportabile e con un sistema di catalogazione bizantino e inutilmente complicato, e preferisco Lightroom + Graphic Converter. C’è chi deve usare un word processor enorme e pesante come Microsoft Word per scrivere una lettera quando a me basta TextEdit (e per lavoro strumenti quali BBEdit, TextWrangler, Tex-Edit Plus ma non Word). Certo, il Finder va migliorato, Spotlight va migliorato… Tutto è perfettibile, e Mac OS X non è da meno. E mentre attendiamo che Apple effettui quei miglioramenti, non vedo dove sia il problema nel servirsi di strumenti sviluppati da altri. Sì, anche pagando, mica è peccato.

Il mistero della batteria, parte 3

Mele e appunti

A un anno e mezzo di distanza, la saga continua. Per capire a cosa mi riferisco, è preferibile leggersi le puntate precedenti (Parte 1, Parte 2). Riassumendo, i fatti sono questi:

1. Nel gennaio 2007 mi accorgo che la batteria originale del mio iBook SE 466MHz “clamshell” non ha più molta autonomia e decido di sostituirla con una comprata nel 2005 e conservata sigillata e con ogni precauzione. A luglio 2007 l’iBook smette di ricaricare la batteria nuova. Le provo un po’ tutte ma sembra non esservi nulla da fare. La cosa è davvero repentina e il colpevole sembra essere la batteria.

2. A ottobre 2007 trovo finalmente il tempo di verificare se il problema era di quella batteria o se forse era l’alimentatore dell’iBook a non caricare correttamente: rimetto la batteria originale, faccio qualche reset del Power Manager, un paio di cicli completi di carica/scarica e non solo vedo che la batteria originale viene caricata senza problemi, ma scopro che funziona anche meglio di prima e riesco a ricuperare un po’ di autonomia. Rimetto l’altra batteria, quella più nuova e problematica, nella confezione originale e la butto nel ripostiglio.

Avanti veloce fino a dicembre 2008. Mi arriva l’ultima conquista su eBay, un altro iBook conchiglione, l’originale blueberry a 300 MHz. Le specifiche sono scarsine: 32 MB di RAM, disco originale da 3 GB, unità CD-ROM, niente AirPort, niente alimentatore e una batteria (originale del 1999) con un’autonomia di 2 minuti scarsi. Ma a 60 Euro, spese di invio dagli USA incluse, è un piccolo affare. In più l’iBook si trova in condizioni estetiche davvero buone e i due o tre segnetti sulla scocca se ne sono andati con un po’ di detergente e olio di gomito. L’ho preso come macchina su cui fare esperimenti, sia hardware che software. Mi interessa soprattutto imparare a smontarlo per sostituire il disco rigido, in modo da non fare sciocchezze quando mi toccherà cambiare il disco rigido dell’iBook graphite più potente. (Questi iBook sono i più difficili da smontare per sostituire parti che non siano la scheda AirPort o il banco di RAM — in pratica si arriva a smantellare quasi l’intero computer per cambiare il disco interno). L’iBook blueberry arriva con Mac OS 9 installato, e dopo aver fatto pulizia (sorprendentemente, conteneva ancora documenti personali e impostazioni dei due proprietari precedenti), ho effettuato l’upgrade a 9.1, con l’obiettivo di arrivare gradualmente a 9.2.2 (per ora, data la poca RAM, resto su 9.1).

Ieri mi è venuta l’idea di riesumare la batteria che l’altro iBook aveva smesso di caricare nel luglio 2007, e l’ho data in pasto all’iBook recentemente arrivato. Resettato il Power Manager, resettata la PRAM e riavviato l’iBook, con mia sorpresa il computer iniziava a caricare la batteria. “Vedrai che dopo dieci minuti smette e appare la X, come sull’altro iBook”, ho detto a mia moglie. Invece il simbolo del fulmine rimaneva e dopo una mezz’ora anche l’indicatore nella striscia di controllo in basso allo schermo iniziava a marcare il progresso di carica. Tre ore dopo l’iBook aveva caricato la batteria e alle 19 di ieri scollegavo l’alimentatore per fare la prova del nove. L’iBook pareva reggere bene, e l’indicatore di autonomia sparava valori compresi fra le 6 e le 11 ore di autonomia, assestandosi sulle 5 ore e 40 mentre aprivo file e applicazioni e facevo uso del disco rigido. L’ho lasciato lì, senza usarlo veramente, ma impedendogli di andare in stop. Quando sono andato a dormire mi sono dimenticato di spegnerlo, e stamattina alle 6:15 è comparso il primo avviso “Stai utilizzando la carica di riserva della batteria, se non colleghi l’alimentatore il Mac entrerà in stop automaticamente…” eccetera. È vero, non c’è stato un utilizzo attivo della macchina, e molte ore le ha passate con monitor e disco spenti, però la batteria è durata quasi 12 ore. Segno che funziona.

Ma allora perché l’altro iBook ha smesso di ricaricarla? I due iBook condividono lo stesso alimentatore e l’unica cosa che è cambiata nel frattempo è che ho sostituito il cavo che dall’alimentatore va alla presa di corrente. Che sia il sistema operativo? Ma, come scrissi nella Parte 1 della vicenda, pur riavviando l’altro iBook in Mac OS 9 la situazione non cambiava. Un mistero, appunto. Ora non mi resta che provare a rimettere la batteria creduta morta nell’iBook SE 466 MHz e ‘vedere di nascosto l’effetto che fa’. Comunque sono contento di come sono andate le cose, e meno male che non ho buttato quella batteria!

Il ritorno di Genius

Mele e appunti

Non uso iTunes Store di frequente, e da quando esiste avrò acquistato due o tre album. Da quando c’è App Store, però, mi capita di passare più spesso dalla pagina principale di iTunes Store (anche perché il passaggio è obbligato). Qualche giorno fa noto una sezione nuova nella pagina Home di iTunes Store, intitolata Genius Solo Per Te.

Un Genius nell'iTunes Store

Non saprei dire da quando è attiva, forse dipende da quando si è attivato Genius, e non compare prima di aver macinato una buona quantità di dati della propria libreria iTunes. Io attivai Genius subito (vedere anche questo post di settembre) ed ero molto curioso di verificarne l’efficacia sulla media-lunga distanza. Ho quindi iniziato a sfogliare questa sezione. Facendo clic su “Elenco completo”, appare questa schermata:

Genius solo per me

Direi che si spiega da sola: vengono presentati consigli personalizzati in base alla musica raccolta nella propria libreria, che si possono ulteriormente raffinare comunicando a Genius che il tal album già lo si possiede (magari su CD e non lo si è ancora importato), oppure che una certa proposta non è gradita. L’altro giorno mi sono messo ad ascoltare un certo numero di proposte (se ne possono vedere molte continuando a selezionare “Più” in alto a sinistra) e devo dire di essere piacevolmente sorpreso: ho scoperto sei artisti che non conoscevo e un paio di album di artisti che conoscevo a malapena. Genius mi ha proposto parecchio materiale interessante, e se fossi uno scriteriato probabilmente avrei già speso un centinaio di Euro nell’iTunes Store. Per intanto mi sono appuntato nomi e titoli. È chiaro che un meccanismo del genere è diabolico, e neanche tanto sottilmente. Più Genius si raffina, più le proposte saranno azzeccate. Più proposte azzeccate significa nuova musica che piace e quindi più acquisti. Ma resta sempre un servizio utile per segnalare nuovo materiale, che io poi magari decido di comprare su CD in un negozio (rimango sempre un po’ vecchia scuola), oppure nello iTunes Store se voglio risparmiare qualcosa e non mi importa avere soltanto una manciata di file immateriali.

Comunque già a questo livello, e per quanto mi riguarda, Genius esce vincitore: di tutte le proposte che ho ascoltato, solo un paio esulavano dai miei gusti musicali. E la mia libreria iTunes, specie ultimamente, si è fatta piuttosto eclettica.

Apple in contropiede

Mele e appunti

La notizia è di ieri ed è importante: Apple annuncia che Phil Schiller, e non Steve Jobs, terrà il keynote al prossimo Macworld Expo, e che l’edizione di gennaio 2009 del Macworld Expo a San Francisco sarà l’ultima a cui Apple parteciperà. Mica male, come uno-due (già la seconda metafora sportiva, e non mi interesso di sport! Anche questo è emblematico, ah ah).

Com’è ovvio, sull’Internet articoli e commenti sono comparsi come funghi in poche ore. Gli interventi finora più intelligenti mi sembrano quelli di Jason Snell e Rob Griffiths su Macworld.com. John Gruber mi ha preceduto nell’estrapolare le parti più interessanti dei loro commenti (d’altronde ha il fuso orario a favore), che io diligentemente riporto di seguito, tradotti. Inutile aggiungere che, se sapete l’inglese, vale la pena leggere i loro contributi per intero.

Rob Griffiths scrive esattamente quelle che sono state anche le mie reazioni a caldo:

Come uomo d’affari credo di capire perfettamente la decisione di Apple. Non essere legata a un evento annuale di enorme importanza subito a seguito del periodo di shopping natalizio è buona cosa. Non dover spendere una piccola fortuna per tutto quel che comporta la partecipazione a una fiera così grande è buona cosa. Avere maggiore flessibilità nell’introdurre nuovi prodotti secondo il proprio calendario è buona cosa. Non dover tirar fuori un “One More Thing” ogni anno è buona cosa. Quindi comprendo bene come sia una decisione sensata a livello di business. Come individuo ed entusiasta Mac, però, credo che questa sia una delle cose peggiori che sia capitata alla comunità Mac in tanti anni.

Intendiamoci, non sto dicendo che questo avrà su Apple un impatto negativo a lungo termine. Potrebbe esserci qualche effetto indesiderato a breve termine, ma credo davvero che sia la decisione commerciale più giusta (ciò non vuol dire che io la condivida, solo che la comprendo). Ma per la comunità che circonda il Mac è proprio la fine di un’epoca. 

Jason Snell, nel suo ottimo pezzo, scrive:

Sono molto sorpreso che Apple abbia preso un evento che è tradizione da 25 anni, un evento che ha rappresentato il più bel punto d’incontro per l’intera comunità di utenti e distributori di prodotti per Mac, e lo abbia trattato come un brandello di immondizia attaccato alla sua scarpa. Ma in realtà la cosa non mi stupisce più di tanto: era da molto tempo che Apple stava seguendo questa direzione e preparando questo momento.

[…]

Quel che ‘puzza’ è la scelta dei tempi per comunicare l’annuncio. Siamo a tre settimane prima del keynote del Macworld Expo, e proprio adesso Apple decide di annunciare i propri piani non solo per quel keynote, ma anche per l’edizione 2010 della fiera? Perché adesso? Secondo me è perché il primo annuncio [Jobs non terrà il keynote, lo farà Schiller] aveva assolutamente bisogno del secondo [Il Macworld Expo 2009 segnerà l’ultima partecipazione di Apple a questo evento]. Immaginiamoci se Apple si fosse limitata ad annunciare che Steve Jobs non avrebbe partecipato al Macworld Expo. La macchina delle congetture sulla salute di Jobs si sarebbe subito messa in marcia. La mancanza di Jobs all’Expo verrebbe utilizzata per alimentare millemila articoli e commenti sulla salute e sulla persona del CEO di Apple. 

La decisione di Apple non stupisce Snell fino in fondo perché, spiega, se ci soffermiamo ad analizzare le mosse di Apple nel calendario pubblico degli ultimi otto anni, questa scelta di non legarsi a un evento non pianificato da Apple diventa improvvisamente sensata:

Torniamo un attimo indietro agli inizi del secolo. In quel tempo vi erano due edizioni del Macworld Expo: una a gennaio a San Francisco, e una durante l’estate sulla costa Orientale (prima a Boston poi a New York). Apple abbandonò l’edizione di New York non appena venne annunciato il ritorno della fiera nella città di Boston. Quale delle due cose sia arrivata prima dipende dai punti di vista, ma lasciate che vi dica che gli ultimi keynote di Apple al Macworld Expo di New York furono proprio insipidi. Apple in quel periodo non aveva molte novità da annunciare, quindi le grandi aspettative che si montano sempre in attesa di un keynote di Apple furono in gran parte disattese, con forti delusioni.

Mi sembrò ovvio che Apple fosse stanca di annunciare prodotti seguendo il calendario di qualcun altro. L’eliminazione del Macworld Expo della costa Orientale ridusse e catalizzò quelle aspettative intorno a un solo evento: il Macworld Expo di San Francisco.

Allo stesso tempo, Apple cercava di approfittare di altre occasioni per annunciare nuovi prodotti. Il keynote alla conferenza degli sviluppatori, evento da sempre un po’ soporifero, divenne all’improvviso un numero di grande importanza. E poco a poco Apple ha iniziato a fare annunci e presentazioni in eventi sotto il suo controllo, non solo nel Campus Apple, ma anche al Moscone West di San Francisco, allo Yerba Buena Theater di San Francisco, e anche al California Theater a San José.

Quegli eventi erano programmati da Apple, controllati da Apple, e i partecipanti erano esclusivamente ospiti e VIP invitati da Apple, rappresentanti dei media, analisti, e dipendenti Apple. Il pubblico non era ammesso e non c’erano interferenze da parte di intermediari come IDG World Expo. Ma la cosa più importante era la tempistica: Apple poteva annunciare prodotti ogni volta che voleva e quando erano pronti, invece di essere costretta a rispettare il calendario di una fiera che solitamente viene fissato con anni di anticipo. 

Tutti sembrano concordare su una cosa, e cioè che comunque il Macworld Expo senza Apple non sarà più la stessa cosa e finirà col diventare un evento sgonfiato e noioso. Snell spera di no, e arriva a dire che, forse paradossalmente, senza Apple ad attirare tutta l’attenzione su di sé, il Macworld Expo potrebbe avvantaggiare maggiormente tutti quei produttori di hardware e software Mac che espongono le proprie novità in quello stesso evento. Snell: Ho sempre implorato ogni azienda che incontravo prima dell’Expo di annunciare i propri prodotti prima che Jobs salisse sul palco, perché poi qualsiasi cosa sarebbe andata persa o dimenticata. Tale è l’effetto keynote.

Personalmente il fatto che Jobs non tenga il prossimo keynote mi incuriosisce. Intanto non sono convinto che Jobs sarà del tutto assente. In fin dei conti è l’addio di Apple al Macworld Expo. Immagino che Schiller e Jobs giocheranno a parti invertite, con Schiller a tenere banco (fra l’altro, in bocca al lupo, Schiller — è un brav’uomo, eh, ma non ha un centesimo del carisma di Jobs) e Steve a fare una breve apparizione, magari riservandosi il momento più topico o l’annuncio più interessante. Sono davvero curioso di vedere l’interezza dell’impatto della non presenza di Jobs, sia a livello di partecipazione, sia a livello azionario. A prescindere da che cosa verrà annunciato, l’evento avrà conseguenze.

Intanto si scrivono le congetture più varie. A me dispiace che il keynote non sarà il solito show di Steve Jobs: egli è in grado di far sembrare buoni anche i keynote più deboli e privi di succose novità. Tuttavia, se il keynote è destinato a girare intorno al nuovo MacBook Pro unibody da 17 pollici, ai nuovi Mac mini, e all’annuncio che Snow Leopard sta andando ottimamente sulla tabella di marcia e a poco o null’altro, posso anche capire perché Jobs non abbia questa gran voglia di salire sul palco.