L'usabilità del Kindle 2

Mele e appunti

Sono da tempo iscritto all’Alertbox di Jakob Nielsen, e nell’ultima pubblicazione del 9 marzo si trova una breve recensione sul nuovo Kindle 2 che pone l’accento, prevedibilmente, sul design e sull’usabilità del nuovo modello di lettore di testi in formato elettronico proposto da Amazon. Il risultato è quel che in inglese si direbbe una mixed bag, ossia un insieme di aspetti positivi e negativi ugualmente importanti.

Riporto i passaggi essenziali della recensione di Nielsen:

Sommario: Il nuovo lettore di e‑book di Amazon offre una leggibilità paragonabile al testo stampato e brilla soprattutto per quanto riguarda la lettura di romanzi; tuttavia il design dell’interazione con l’utente è problematico e la gestione di contenuti non lineari è da rivedere.

La nuova versione del Kindle, il dispositivo di Amazon.com dedicato alla lettura di e‑book, è stata recentemente introdotta con un display migliorato e svariati aggiornamenti generali. Ora offre un buon livello di usabilità per la lettura di opere di fiction lineari (soprattutto romanzi), anche se è meno usabile per altri tipi di letture.

Ho fatto un esperimento e ho acquistato due copie dello stesso libro: un’edizione cartacea tascabile e un file da caricare sul Kindle. A capitoli alternati, ho letto metà del libro sul supporto cartaceo e metà del libro sullo schermo del Kindle. La mia velocità di lettura è stata pressoché identica. […]

Girando per casa con il Kindle in mano, mi sentivo un po’ come un personaggio di Star Trek con il suo datapad. Ma quando mi sono seduto e ho iniziato a leggere il romanzo, mi sono lasciato catturare dalla storia al punto di dimenticarmi che la stessi leggendo su un dispositivo elettronico. Già solo per questo i progettisti del dispositivo si meritano un elogio.

Design dell’interazione problematico

Il Kindle eccelle in un’area del design dell’interazione: voltare la pagina è estremamente semplice e comodo. Questo comando presenta due pulsanti (due per lato). Lo sfogliare pagine a ritroso è un’azione molto meno comune, ma è comunque supportata molto bene grazie a un pulsante apposito di dimensioni minori.

Il dispositivo offre quindi un buon supporto per quanto riguarda la lettura lineare — ed è giusto che sia così, visto che il design del Kindle è incentrato su questo compito specifico. Durante la lettura, l’unica interazione è quella di premere il pulsante di avanzamento pagina.

Tutto il resto è problematico.

La maggior parte delle interazioni con il Kindle sono mediate da un piccolo joystick chiamato 5‑way, che permette di muovere il puntatore nelle quattro direzioni; la quinta azione viene innescata premendo il joystick. Agire in continuazione sul joystick per spostare il cursore sullo schermo è particolarmente tedioso. Non si ha affatto la sensazione di una manipolazione diretta dell’interfaccia. È il joystick 5‑way il padrone del puntatore, non l’utente, e spostare il puntatore nel punto desiderato richiede un certo lavoro.

L’interazione con il joystick 5‑way del Kindle assomiglia molto alle interfacce utente di molti smartphone di medio livello, anche se il 5‑way è peggiore della mini-trackball di un BlackBerry.

Inoltre Kindle è lento. Ogni volta che si impartisce un comando, il dispositivo pondera la situazione prima di agire. Anche il voltar pagina richiede un intervallo di tempo leggermente più lungo del normale, e tutte le altre azioni si rivelano decisamente impacciate.

In breve: puntamento problematico e goffo + reazione lenta = pessima esperienza utente che scoraggia le persone dall’esplorare il dispositivo più a fondo e provare compiti diversi.

Gestione di contenuti non lineare: un design discutibile

Poniamo che si voglia dare un’occhiata all’elenco degli articoli di tecnologia del Wall Street Journal. Osservate lo screenshot: dove fareste clic?

kindle-wsj-section-list.png

Tutte le persone a cui ho rivolto la domanda hanno risposto che farebbero clic su “Technology” per vedere gli articoli di quella sezione.

Invece no. Facendo clic in quel punto si viene portati soltanto sul primo articolo della sezione. Per vedere la lista di articoli della sezione è necessario fare clic sul numero in parentesi che indica la quantità di articoli disponibili. In questo caso, “(16)”.

Intuitivo? Niente affatto. Tant’è vero che, dopo due settimane, continuo a sbagliarmi facendo ciò che sarebbe più naturale: fare clic sul nome della sezione per visualizzare l’elenco di articoli relativi.

(Se il Kindle fosse un dispositivo touch-screen o un’interfaccia utente basata sul mouse, insisterei su questo aspetto facendo notare le implicazioni della Legge di Fitts legate alla scelta di usare l’elemento cliccabile più piccolo per effettuare la selezione più importante. Tuttavia con il joystick 5‑way scegliere un elemento grande o piccolo è ugualmente semplice, e questo è l’unico aspetto positivo di tale interfaccia. In ogni caso, rendere così piccoli i comandi più importanti, e quindi riducendone l’enfasi, rimane una pessima scelta di design dell’interfaccia grafica).

Il problema di usabilità con contenuti non lineari è fondamentale perché è indice di una problematica più profonda: l’esperienza d’uso del Kindle è dominata dalla metafora del libro. L’idea di voler iniziare dalla prima pagina di una sezione ha senso in un libro poiché la maggior parte dei libri è basata su un’esposizione lineare. Purtroppo non è il caso di molte altre serie di contenuti, fra cui quotidiani, riviste e anche libri di non-fiction come guide turistiche, enciclopedie, ricettari.

Pertanto, le decisioni di design che fanno del Kindle un ottimo dispositivo per leggere romanzi (e non-fiction lineare), lo rendono una pessima soluzione per consultare contenuti non lineari. Certo, i progettisti di Amazon potrebbero sistemare certe semplici sviste dell’interfaccia utente, come il design dell’interazione per la consultazione del sommario di un quotidiano. Ma sarebbe solo una pezza provvisoria. Per ottimizzare davvero l’esperienza utente non lineare dovrebbero riconcettualizzare completamente il design del Kindle.

Il mini della discordia

Mele e appunti

Il 3 marzo Apple ha finalmente aggiornato anche la linea desktop. I cambiamenti più notevoli non riguardano tanto l’iMac, quanto il Mac mini e il Mac Pro. Ma è il Mac mini al centro della discussione, almeno per quanto mi è dato vedere nelle mailing list, forum e blog che seguo. Farò anch’io le mie considerazioni a riguardo.

Il Mac mini attendeva un aggiornamento da più di un anno e mezzo, e i ritocchi stavolta non sono stati superficiali. Esteriormente non è cambiato nulla, dentro è un’altra cosa. Il processore è più veloce, il bus di sistema e la memoria RAM pure, la scheda grafica è migliore, i dischi rigidi sono più capienti, il massimo di RAM installabile è maggiore, il SuperDrive è di serie, per non parlare delle porte: due porte video (DVI e DisplayPort), FireWire 800 (che ormai è la nuova FireWire 400 a livello di diffusione sui Mac), e cinque porte USB.

Il prezzo: 599 Euro (579 in Spagna) per la versione con disco rigido da 120 GB e 1 GB di RAM, e 799 Euro (779 in Spagna) per la versione con disco rigido da 320 GB e 2 GB di RAM.

Prima di buttarmi nella polemica, mi voglio levare un sassolino dalla scarpa. La scelta di continuare con la proposta del mini in due versioni è discutibile. Non è tanto un discorso di prezzo, come vedremo fra poco, ma di scarsa differenziazione delle due versioni, soprattutto per come viene percepita dal pubblico. Prendiamo l’iMac. Bello o brutto che sia, la distinzione fra le due versioni è netta: una ha lo schermo da 20 pollici, l’altra da 24. Tralasciamo per un attimo il fatto che in realtà l’iMac è proposto in quattro versioni (che si differenziano comunque l’una dall’altra per elementi facilmente distinguibili e quantificabili: processore più veloce, disco rigido più capiente, scheda video migliore, maggiore quantità di RAM video a disposizione) — la prima grande distinzione percepibile dal pubblico è lo schermo, sono le dimensioni fisiche della macchina. Una è più ‘grossa’: agli occhi dell’acquirente questo singolo fattore mette già in moto due suggestioni: 1. È più grosso = ha più cose, è ‘migliore’; 2. È più caro. E l’acquirente, che sia interessato all’iMac o meno, percepisce la distinzione immediatamente e giustifica le differenze.

Con il Mac mini il discorso non regge. Non c’è un elemento esteriore che proponga all’acquirente un’immediata distinzione. L’offerta è quella: due Mac mini del tutto identici fuori e con scarse differenze al loro interno. Uno non sembra nettamente ‘migliore’ dell’altro, né più ‘professionale’, né altro. L’unica cosa notevole agli occhi del pubblico è il prezzo, due prezzi piuttosto diversi, che l’acquirente fatica a giustificare, perché fatica — e non a torto — a percepirne le reali differenze.

Due possibili soluzioni avrebbero potuto essere:

  1. Proporre un unico Mac mini, con le caratteristiche dell’attuale versione di punta.
  2. Differenziare le due versioni in maniera più marcata, per esempio offrendo un maggior numero di accessori con la versione più costosa (tastiera e Mighty Mouse wireless, adattatori video); questo avrebbe creato una serie di elementi che il pubblico avrebbe potuto distinguere da subito (come per gli iMac): l’impressione di avere un sistema Apple completo, monitor a parte, comprando la versione di punta; una confezione ‘più grossa’ per il Mac mini più costoso (proprio perché comprensiva di accessori)… insomma, dettagli stupidi, ma a favore di una maggiore credibilità.

Detto questo, c’è chi trova troppo caro anche il mini da 599 Euro. Non sono d’accordo. Provo a offrire il mio punto di vista su due delle obiezioni più diffuse che ho letto o sentito in giro.

1. Con 350 Euro in più mi compro il MacBook entry-level, che ha pure lo schermo. Qui ho scelto una delle tante varianti — un’altra, per esempio, è con 500 Euro in più mi compro l’iMac da 20 pollici, ecc. ecc. Ma che significa? Certo, con duemila Euro in più mi compro un Mac Pro. Si potrebbe andare avanti così a ruota libera. Il fatto è che esistono utenti che non vogliono o non hanno bisogno di un portatile; che hanno già uno schermo a cui collegare il Mac mini; che non hanno spazio sufficiente per un computer più ingombrante; e, perché no, che non hanno 350, 500, 1000, 2000 Euro in più da spendere. Un Mac di queste dimensioni e con questa potenza è un ottimo prodotto per 599 Euro. Si può persino dire che, a confronto, il Mac mini precedente (il modello del 2007) era più caro perché decisamente sottopotenziato, sia rispetto alla concorrenza, sia rispetto agli altri Mac. Chi non ha molto denaro da spendere e vuole entrare nel mondo Mac, trova nel mini un computer sufficientemente potente da dare soddisfazioni per un bel po’. Chiaro, non è il computer più a buon mercato in assoluto, ma è il più abbordabile dei Mac, e offre una potenza paragonabile ad altri Mac più costosi. È anche e soprattutto questo che lo rende appetibile.

2. Esiste il PC [inserire un qualsivoglia modello e marca] che ha le stesse caratteristiche e costa 100, 150, 200, … Euro meno. Può essere, non dico di no. Ma tutti gli esempi che ho visto fare, o mi sono stati fatti, in realtà non calzavano. Che esista un tower Dell con lo stesso Intel Core 2 Duo del mini, che abbia uguale o maggiore memoria RAM, e tutto quel che volete, e costi 499 Euro, o 529, o 599, va benissimo, ma bisogna guardare al di là del proprio naso. Magari non ha la Ethernet gigabit ma una 10/100 normale. Molto probabilmente non ha Bluetooth e scheda wireless di serie, o due porte video. Quasi certamente non si può mettere in uno zaino e trasportarlo facilmente altrove come il Mac mini. Sicuramente non ha Mac OS X. Sicuramente non è progettato come un Mac. Queste non sono inezie, ma sono particolari che tanta gente non considera di valore. Se li si porta alla luce spesso si viene bruscamente etichettati come ‘fanatici Apple’, l’interlocutore alza gli occhi al cielo o fa una smorfia e la discussione finisce lì. Molti danno per scontato che si possa far stare un concentrato di tecnologie in così poco spazio, ma io non ho visto in giro tutta questa moltitudine di HP, Sony, Toshiba, Acer, Dell, piccoli come il Mac mini e altrettanto ben progettati.

Progettazione, design ingegneristico e integrazione fra hardware e software sono, in generale, fattori considerati di minore importanza dai detrattori, i quali, limitandosi a un confronto di specifiche tecniche su carta, non le vedono come ragioni sufficienti a giustificare il maggior prezzo del Mac mini ‘a parità di prestazioni’. Ho messo l’ultima espressione fra virgolette, perché non basta che le due macchine abbiano lo stesso Intel Core 2 Duo e la stessa RAM per sostenere chissà quale parità. Si possono fare le prove più svariate sul campo per dimostrarlo. Empiricamente, mi sono limitato a confrontare le prestazioni di due computer portatili che ho avuto sottomano contemporaneamente alcune settimane fa: il Toshiba Satellite (non chiedetemi il modello, ma è recente, direi del tardo 2007) di mia moglie, e il MacBook bianco di mio cognato, che è della serie anteriore a quello attualmente in commercio — è il modello entry-level dello scorso anno (Early 2008), con processore grafico Intel GMA X3100 e unità ottica Combo. Il Toshiba ha un Intel Core 2 Duo a 2,3 GHz e 3 GB di RAM; il MacBook ha un Intel Core 2 Duo a 2,1 GHz e 2 GB di RAM. Entrambi i computer non hanno configurazioni software particolari; mia moglie e mio cognato sono entrambi utenti per i quali va benissimo il software che viene preinstallato sulle macchine, e sostanzialmente i due computer hanno simili programmi: posta, browser, programmi per vedere DVD e video, la suite Microsoft Office, ecc. Cambiano i sistemi operativi, naturalmente: da una parte Vista Home Premium, dall’altra Mac OS X Leopard. Non ricordo che scheda grafica abbia il Toshiba, ma la memoria video è 256 MB, e a giudicare da un’icona presente nella taskbar, deve trattarsi di una ATI — quindi dedicata e non integrata, con memoria video separata e non condivisa con quella disponibile al sistema. Eppure…

Eppure il Toshiba si è rivelato meno reattivo nell’effettuare qualsiasi compito, dall’aprire una serie di finestre, o passare da un’applicazione attiva all’altra, al gestire il medesimo numero di applicazioni aperte sul MacBook. Con aperti Word, Excel, Outlook, Firefox, Google Chrome, Windows Media Player, iTunes il Toshiba era visibilmente più in difficoltà del MacBook con aperti Word, Excel, Mail, Firefox, Safari, VLC, iTunes e iPhoto. La mia non è stata una prova condotta scientificamente, ma la ritengo indicativa perché riproduceva situazioni tipiche dell’uso quotidiano.

Tornando al mini e alla seconda obiezione, è assai probabile che vi siano dei PC paragonabili al mini, specifiche tecniche alla mano, e che costino come il mini, o anche meno. Ma che sia la stessa cosa che usare un Mac mini… ho ragione di dubitare.

Non è questione di essere utente Mac, è questione di mentalità in generale. Esistono persone che ragionano in questo modo: per passare a Mac, il Mac deve costare ancora meno del PC medio mediocre in circolazione, e deve avere sulla carta delle prestazioni avvertite come superiori (processore più veloce, scheda grafica ‘migliore’, e così via). Insomma, perché Apple non ha introdotto un Mac mini a 8 core al prezzo di 299 Euro IVA inclusa? È così che si fa, altrimenti è bancarotta. Solo che Apple ha un fatturato strepitoso, ha 25 miliardi di dollari in banca, e forse in quanto a marketing ne capisce un po’ di più del sapientone pezzente di turno.

Molti dei miei interlocutori sull’argomento sono persone che provengono da anni di PC e manifestano una curiosa maniera di ragionare ‘al ribasso’: il computer migliore è quello che costa meno a prescindere. Se trovano un portatile a 700 Euro non va bene, perché sicuramente si può risparmiare comprando il portatile di un’altra marca in offerta al Carrefour per 549 Euro. Poi non importa se è così pieno di spazzatura software e mal configurato da essere minimamente usabile; non importa se per evitare il surriscaldamento ha due ventole attive in continuazione che fanno rumore come un asciugacapelli; non importa se dopo un mese di utilizzo i fermi in plastica(ccia) che fissano la tastiera si rompono e quando si batte sui tasti un po’ velocemente la tastiera si solleva; non importa se dopo sei mesi lo schermo LCD inizia a degradare presentando righine verticali. (Tutte situazioni di cui sono stato testimone). A questa gente importa il prezzo e basta. Questa gente ti dice che dentro i Mac e i PC sono uguali. Questa gente ti dice che tutta ‘sta storia del design dei prodotti Apple è una minchiata, uno specchietto per le allodole. Io apro il mio iBook conchiglione del 2001, senza un difetto, senza un guasto in 8 anni di uso continuato, e tiro dritto.

Prima di concludere vorrei ribadire che non è mia intenzione fomentare l’ennesima diatriba Mac contro PC. Perché se mi si legge fra le righe, si può capire che non sto dicendo: i Mac sono migliori, i PC fanno schifo. PC di buona qualità ve ne sono — ma non costano 500 Euro nemmeno loro. Con il mini alla soglia dei 600 ci si porta a casa un buon computer, potente e di dimensioni contenute, ben progettato e configurato in modo da essere subito produttivi. È in quest’ottica che bisogna inquadrarne il prezzo, ed è in quest’ottica che giudico il Mac mini un computer abbordabile e non necessariamente ‘costoso’.

Migliorare lo Shuffle?

Mele e appunti

In un recente articolo, John Gruber riflette brevemente sull’interfaccia dell’iPod Shuffle. L’articolo prende spunto da un suo errore di valutazione: quando, nel dicembre 2004, uno dei tanti siti di rumour (TheMacMind) predisse l’avvento di un nuovo iPod basato su memoria flash, economico e così piccolo che non avrebbe avuto nemmeno uno schermo, Gruber rispose che non era possibile. Ma era in errore, infatti al Macworld Expo del gennaio 2005, Apple introdusse lo iPod Shuffle.

Gruber, nel definire implausibile la predizione di TheMacMind e quindi la realizzazione di un tale dispositivo, si concentrò essenzialmente sul problema della mancanza di uno schermo:

Senza un’interfaccia grafica, l’unica possibilità rimasta sarebbe un’interfaccia audio — una sorta di funzione testo parlato per leggere elementi di menu, titoli di playlist, e così via, il tutto attraverso gli auricolari. Questa mi sembra la ricetta di un’esperienza utente frustrante, soprattutto quando si cerca di individuare un certo brano che non si trova nelle immediate vicinanze di quel che si sta ascoltando.

Parte del grande successo dell’iPod originale fu dovuta proprio al fatto che il suo schermo era più grande rispetto alla maggioranza dei prodotti della concorrenza. Non vedo come si possa ottenere un’esperienza minimamente decente con un dispositivo del tutto privo di schermo. 

Un’obiezione molto valida, che Apple ha brillantemente aggirato con il concetto di playlist unica da cui pescare brani a casaccio (oppure ascoltarli in maniera lineare, secondo l’ordine della playlist). Questo ha reso positivamente superflua la presenza di un display, e ha consentito la creazione di un lettore di file audio grande come una chiavetta USB. (E la prima generazione di iPod Shuffle assomigliava davvero a una chiavetta USB).

In questi anni i cambiamenti apportati allo Shuffle sono stati pochi. Prima hanno aumentato la capacità — da 512 MB a 1 GB — poi è stato rivisto esternamente, e le ultime modifiche sono state di nuovo nella capacità — da 1 a 2 GB –, sono apparsi nuovi colori, e infine è stato rivisto il prezzo. Internamente e a livello di interfaccia, tuttavia, lo iPod Shuffle è lo stesso di quattro anni fa.

È ora di introdurre qualcosa di nuovo anche qui, secondo Gruber:

[La] funzione di lettura del testo ad alta voce incorporata nel nuovo Kindle di Amazon mi ha fatto riflettere e ripensare alla mia vecchia idea di una possibile interfaccia audio per lo Shuffle. Se può farlo il Kindle, perché non lo Shuffle?

[…]

Io dico che è ora di un nuovo design. Certo, mi direte che “è solo lo Shuffle”, ma verrà riprogettato prima o poi. […] Farlo ancor più piccolo di così è improbabile, quindi perché non aggiungervi una funzione di testo parlato?

[…]

Dimenticavo: l’ultima generazione di iPod nano è dotata di tale funzione:

  • I menu parlati permettono di conoscere i nomi dei menu, i titoli delle canzoni e gli artisti senza guardare il display.

La si aggiunga allo Shuffle, dico io.

A mio avviso l’idea non è male — l’accessibilità è sempre una bella cosa — però bisogna valutare quanto valga la pena investire in un’espansione delle funzioni, e quindi dell’interfaccia, in un dispositivo super-portatile e super-economico come lo Shuffle.

La pagina delle specifiche dell’iPod nano elenca una serie di lingue supportate, ma non è chiaro se si riferisce alla funzione dei menu parlati o meno. Parrebbe di sì, e mi piacerebbe avere conferma da qualcuno che possiede un iPod nano. Se così fosse, passare questa funzionalità anche allo Shuffle non sarebbe difficile e non dovrebbe tradursi in un costo maggiorato per l’utente finale. Solo che, a meno di non rendere l’interfaccia audio sempre attiva, occorre aggiungere un qualche meccanismo per attivarla/disattivarla, il che si traduce nell’aggiunta di un interruttore esterno (simile ai due già esistenti di acceso/spento e riproduzione lineare/casuale) oppure — più probabilmente — di una combinazione di tasti. Un’altra combinazione che l’utente deve ricordare. In un dispositivo piccolo come lo Shuffle, anche l’interfaccia utente è ‘piccola’, ovvero non ha grandi spazi di movimento a meno di comprometterne la praticità. La bellezza dell’attuale interfaccia è che non è affatto necessario guardare la posizione dei pulsanti una volta memorizzato l’orientamento con cui si ‘indossa’ lo Shuffle. Creare nuove combinazioni di tasti rischia, a mio parere, di rompere l’equilibrio dell’intuitività d’uso dello Shuffle.

I vecchi Discman di Sony avevano la possibilità di inserire/disinserire un feedback sonoro a ogni pressione di tasto, e l’implementazione era semplice: bastava tenere premuto il tasto play/pausa per alcuni secondi, finché si udiva un beep di conferma. Sullo Shuffle si potrebbe fare una cosa del genere, e l’interfaccia non verrebbe complicata più di tanto.

Ieri Gruber ha aggiunto un’osservazione all’articolo summenzionato:

In merito al mio suggerimento della settimana scorsa, ossia che Apple dovrebbe aggiungere i menu parlati all’iPod Shuffle […], stavo pensando che il parlato potrebbe funzionare anche nell’altro senso. Se lo Shuffle avesse un qualche tipo di microfono incorporato, potrebbe ricevere comandi vocali dall’utente. Certo, non vorrei trovarmi seduto in aereo di fianco a un tizio che abbaiasse comandi come “Suona, avanti, avanti, pausa” per tutto il volo, ma potrebbe essere una funzione utile per chi usa l’iPod mentre corre o va in bici.

Hmmm… no. Secondo me non funziona.

Un conto è il supporto multilingue per la lettura del testo, un conto è il riconoscimento vocale multilingue. Vero: le stringhe vocali da riconoscere sarebbero poche, perché pochi sono i comandi da impartire per la riproduzione, ma rimane comunque l’ostacolo della precisione nel rilevamento di un comando e della prontezza dello Shuffle nel reagire a tale comando. Uno che fa jogging o corsa veloce o bici (o anche cyclette) parla sotto sforzo, e affinché quel che dice venga correttamente interpretato, il microfono deve stare vicino alla fonte sonora, oppure avere un buon raggio di ricezione. L’unico sistema (a parte tenere lo Shuffle relativamente vicino alla testa) potrebbe essere un microfono inserito nel cavetto degli auricolari, come sull’iPhone, ma questo limiterebbe la scelta degli auricolari per chi, appunto, si porta l’iPod durante attività sportive. Ho visto molti utilizzare cuffie anatomiche al posto degli auricolari bianchi Apple, cuffie che hanno una maggiore stabilità e che permettono la disposizione del cavo audio in maniera meno fastidiosa (con gli auricolari Apple, il cavo principale si divide in due cavetti, uno per auricolare, e il tutto rimane davanti a sé, mentre altre cuffie in commercio hanno un solo cavo in uscita da uno dei due padiglioni, e spesso permettono di far passare il cavetto dietro la testa, per maggiore comodità).

Non so davvero quanto possa essere utile un’interfaccia del genere. Per esserlo, come dicevo, è necessaria una certa precisione e reattività. L’utente non deve essere costretto né ad alzare troppo la voce, né a ripetere più volte un comando perché lo Shuffle non ha inteso bene. Per essere efficace, il riconoscimento vocale deve essere pronto e veloce quanto la pressione del tasto del comando corrispondente. E forse mi sbaglierò, ma io non ho ancora incontrato un riconoscimento vocale così valido.

La direzione interessante di Stainless

Mele e appunti

Spero di non saturare eccessivamente parlando ancora di browser, ma devo farlo perché in questo periodo, a quanto pare, fervono gli sviluppi nel settore.

Come ormai saprete, il browser è una tipologia di software a cui sono parecchio interessato. In primo luogo perché, insieme a programmi di scrittura e impaginazione e alle applicazioni di gestione della posta, è uno strumento con cui convivo ogni giorno. Il word processor o editor di testi sta alla scrittura come il browser alla lettura, e quindi è importante. Secondariamente mi interessano i browser perché offrono spunti notevoli di riflessione in merito ad argomenti a me cari come l’usabilità, l’accessibilità e le interfacce utente.

Ho sempre cercato di seguire gli sviluppi di tutti quei progetti che non erano i soliti ‘grandi nomi’ (prima Netscape e Microsoft, oggi Microsoft, Mozilla e Apple); fui tra i beta tester di Mozilla quando gli indicatori di versione erano M16, M17, ecc. (quindi ancor prima di assumere il formato 0.x.x); sto studiando gli strumenti di localizzazione per poter dare il mio contributo a Camino; e in genere cerco di stare al passo con altri progetti di browser.

Dopo essere stato ‘sedotto e abbandonato’ da Shiira (un browser promettente, ma il cui sviluppo è stato fermo più di un anno a uno stadio di beta con bug e dis-funzionalità irritanti), ho trovato un nuovo pupillo, che ho già menzionato un paio di volte in questa sede: Stainless (solo per Mac OS X Leopard). Un progetto partito in punta di piedi e con umiltà, con lo spirito di creare niente più che una technology demo per mostrare un tipo di architettura multi-processo alternativa a quella implementata da Google Chrome.

La semplicità e l’efficienza di questo browser estremamente spartano (fino a ieri non aveva il minimo supporto per i bookmark, nessuna funzione di autocompletamento delle URL, assenza di qualsivoglia preferenza per gestire l’aspetto e i contenuti Web, ecc.) hanno però riunito una base sostanziosa di utenti, che come il sottoscritto hanno apprezzato gli sforzi di Mesa Dynamics e si sono presi la briga di inviare tanto feedback positivo, al punto di convincere l’azienda a proseguire lo sviluppo e a ‘fare sul serio’. E oggi è uscita la versione 0.5.1, che incorpora una novità interessante e unica nel suo genere: il concetto di sessioni parallele. Loro lo spiegano chiaramente e succintamente nella pagina principale:

[Le sessioni parallele] permettono di effettuare il login in un determinato sito utilizzando credenziali diverse, contemporaneamente e in pannelli separati. Questa nuova tecnologia è parte integrante di Stainless a tutti i livelli, dal sistema privato di archiviazione dei cookie, a bookmark sensibili alla sessione in cui sono stati salvati. 

Per fare un esempio pratico, adesso Stainless è l’unico browser che mi permette di accedere contemporaneamente ai quattro account Gmail che uso più di frequente. Invece di aprire un pannello normale, con ⌘-T, si apre un ‘pannello di sessione separata’ (File > Single Session Tab, oppure ⇧-⌘-T); io ne apro quattro e sono a posto. E dato che Gmail notifica in tempo reale l’arrivo di nuova posta (il numero di messaggi non letti appare nel titolo del pannello), è molto comodo avere più account sott’occhio. Se ho inteso bene, il meccanismo che permette tutto questo è l’archiviazione temporanea dei cookie in una posizione esterna rispetto al normale archivio del browser. Ogni pannello, quindi, non è solo un processo distinto, ma avendo il suo ‘ripostiglio’ personale diventa anche una sessione distinta. Io lo trovo geniale.

Dalla versione attuale, Stainless comincia a supportare anche i bookmark. Anche l’approccio ai bookmark è un po’ differente dagli altri browser. Non c’è una barra dei bookmark posta orizzontalmente nella classica posizione sotto la barra degli strumenti, e non c’è (ancora) un menu o una finestra dedicata alla loro gestione. Appare invece una sottile barra verticale sulla sinistra della finestra del browser, nella quale è possibile trascinare le icone dei siti Web (favicon) e inserirle così fra i preferiti. Il sistema mi sembra interessante. Il fatto che rimangano solo le piccole icone per me non è eccessivamente problematico: nelle barre dei bookmark di altri browser tendo sempre ad abbreviare le etichette in modo da poter avere più bookmark (o cartelle di bookmark) visibili. E poi dei siti che visito più spesso mi ricordo bene la favicon. Sono curioso di vedere se e come implementeranno le cartelle in cui inserire più siti (per ora è possibile inserire solo siti singoli, anche se comunque lo spazio è più che sufficiente). Un problema, però, sono i siti (o le pagine Web) che non hanno un’icona personalizzata — in questo caso rimane l’icona generica del mappamondo:

stainless-sidebar.png

In questo esempio si possono vedere e distinguere il sito di Apple, Flickr, Stainless, e poi un’icona generica, che per la cronaca è quella di Macworld Italia. Un altro problema possono essere le sottopagine di uno stesso sito, che hanno per forza la stessa icona, ma è sufficiente passare il puntatore sulle icone per far apparire i tooltip, le etichette gialle d’aiuto, che riportano esattamente il titolo della pagina Web a cui il bookmark si riferisce. L’inconveniente rimane con siti fatti maluccio (come Macworld Italia), che non formattano propriamente l’HTML per inserire un titolo alle pagine. Se passo il puntatore sull’icona generica, il tooltip non mi dice che è la pagina del blog di Lucio, ma riporta l’altrettanto generica indicazione “New Tab”.

Però l’idea della disposizione verticale e ridotta al minimo dei bookmark è interessante. A ben pensarci, la maggior parte dei siti lascia un ampio margine inutilizzato ai lati delle pagine, quindi una barra laterale ruba meno pixel preziosi alla navigazione del sito rispetto alla striscia orizzontale dei bookmark degli altri browser. L’altro browser che sfrutta questo concetto è OmniWeb, ma per i pannelli, e il ‘cassetto’ che si apre sulla sinistra (o destra) sposta un po’ troppo la finestra principale.

Stainless è in buona salute: mai visto una beta così stabile ed efficiente (il motore di rendering è WebKit). E approvo la direzione che Mesa Dynamics sta intraprendendo, nonché l’approccio ‘a piccoli passi’ che, dopo la valanga di innovazioni e cambiamenti di Safari 4, è come respirare una boccata di aria fresca, grazie anche all’interfaccia più zen, per così dire. Spero continui così.

Quartz Extreme ma non troppo

Mele e appunti

Probabilmente il mio articolo di ieri, sullo stato dei client di posta elettronica, si è un po’ perso nel marasma dovuto all’uscita dei nuovi Mac, ma ci terrei davvero a conoscere la vostra esperienza e opinione in merito.

Oggi invece mi va di ribadire quanto siano frustranti certe ‘innovazioni’ di Safari 4 Beta.

topsites

(Ho effettuato modifiche via Terminale per riavere l’interfaccia di Safari 3).

Top Sites è una bella idea, davvero, e l’implementazione carina, davvero, ma in questo stato è inservibile. Mi rendo conto che è più un problema mio, ossia del mio povero PowerBook G4, che ha la sfortuna di avere una scheda grafica che si trova giusto al confine tra il bene e il male. NVIDIA GeForce FX Go5200, 32 MB di RAM video, una scheda 8x AGP montata su una connessione 4x. Sulla carta la scheda supporta Quartz Extreme — lo si nota da certi dettagli, come l’attivazione di un widget in Dashboard, che avviene con il classico effetto d’acqua (se la scheda non supportasse Quartz Extreme non si vedrebbe). All’atto pratico lo supporta abbastanza. Abbastanza per fare certe cose, ma non abbastanza per farne altre. Quando installai Leopard la prima volta, il fatto che la barra dei menu fosse solida era per me normale. Ma in tutte le schermate che avevo visto sul Web la barra era trasparente. Discussi questa piccola stranezza con John Gruber, e la nostra ipotesi (presto confermata) era che si trattasse di una limitazione della scheda grafica, appunto abbastanza potente ma non da abilitare di default alcuni effetti.

Alla pagina del download di Safari 4, si dice che i requisiti per le funzioni Top Sites e CoverFlow in Safari richiedono una scheda grafica che supporti Quartz Extreme. C’è pure un rimando a una brevissima nota tecnica che dice Se Top Sites e Cover Flow non funzionano in Safari 4 Public Beta, assicurarsi che la propria scheda video supporti Quartz Extreme (Mac OS X) o DirectX 9 (Microsoft Windows).

Quando si ha una scheda come la mia, che supporta-ma-non-abbastanza, Top Sites e CoverFlow funzionano, ma non bene. Nella schermata è possibile vedere Top Sites sul mio PowerBook in una bella giornata. Le aberrazioni grafiche che vedete sono ancora poche. Altre volte la situazione è anche peggiore. Dopo aver catturato la schermata, ho premuto F11 per visualizzare la scrivania e l’interfaccia grafica dell’intero sistema ha cominciato a non rispondere in modo reattivo. Tutti i comandi legati a Exposé e Spaces reagivano con mezzo minuto di ritardo. Ho dovuto chiudere la finestra di Top Sites per risolvere.

Quel che mi piacerebbe fosse implementato (e ho mandato feedback ad Apple) è un comportamento analogo a quanto visto per la barra dei menu: se il sistema grafico non ha risorse sufficienti, fare un passo indietro per rendere la funzione utilizzabile, magari eliminando gli effetti speciali e offrendo un Top Sites spartano, bidimensionale. Invece mi tocca disattivarlo. E tenere CoverFlow al minimo (peraltro non vengono caricate le anteprime e la maggior parte dei miei bookmark vengono visualizzati con segnaposti, vanificando lo scopo primario di CoverFlow — ma su questo mi riservo di indagare più a fondo).